di Giuseppe Scaglione
Amelia Rosselli affermava che «scrivere è chiedersi come è fatto il mondo» – il che è assolutamente vero – e poi ci sono autori che vanno anche oltre: scrivono per «chiedersi come funziona il mondo», ovvero sono convinti che lo scrittore abbia il dovere di assumersi una certa responsabilità civile e di intrecciare l’etica al procedere della propria creatività. In realtà non sono molti, questi autori, perché la gran parte di quelli noti e meno noti è preoccupata piuttosto di costruirsi una carriera letteraria coltivando il proprio “orticello” editoriale e di pubblico, grande o piccolo che sia, dedita più all’immagine che alla sostanza dell’arte, perseguendo il solo fine di ampliare il proprio spazio di visibilità, a qualunque costo. Di conseguenza nella narrativa e in misura lievemente minore nella poesia l’omologazione regna sovrana: l’intrattenimento prevale sulla letteratura e sembra che i più scrivano più o meno sempre le stesse cose, ciascuno all’interno della sua nicchia e sottomesso alla moda del momento. Fortunatamente ci sono le eccezioni e tra queste spicca il pugliese Bartolomeo Smaldone (Altamura, 22 gennaio1972), che è senza dubbio una delle voci più interessanti e originali della poesia italiana contemporanea. Un autore tra quei pochi che identificano nell’arte della scrittura un irripetibile spazio etico di conoscenza. Anche per questo ogni suo libro è diverso dagli altri, è un atto a sé, che si relaziona ai precedenti e ai successivi soltanto nella qualità di tappa, di pietra miliare in un percorso scandito dalla scrittura.
Smaldone infatti dimostra di aver intrapreso un’anabasi, un cammino impervio e faticoso che innalza l’osservazione dai contorni stereotipati dell’esistenza (quali vengono disegnati dal conformismo) verso l’interno delle coscienze, dall’apparenza verso la sostanza, dalla superficie delle cose e dei comportamenti umani sempre più verso la profondità, l’intima essenza, l’anima mundi. E per farlo assume la disobbedienza all’omologazione civile e culturale quale lemma della ricerca poetica. Un cammino impervio perché, rifiutando appunto l’omologazione, gli occorre raggiungere con la sola forza della parola le ragguardevoli altezze letterarie alle quali ambisce, faticoso perché è un impegno che richiede studio e molta applicazione. Insomma, un approccio che incontra pienamente il convincimento più volte espresso in queste pagine, ovvero che l’arte, anche l’arte della scrittura, poggi su tre pilastri: lo studio, l’applicazione e il talento. Talento che Smaldone dimostra indiscutibilmente di possedere.
La costante di questo percorso, di questa anabasi, è data da una parola poetica fortemente orientata all’esplorazione lessicale e nel contempo al recupero di valori stilistici propri del Novecento, laddove Smaldone sembra essere tra quegli autori convinti, a buona ragione, che per quanto riguarda la vera letteratura (non quindi l’intrattenimento) il secolo sia terminato soltanto cronologicamente, che non abbia ancora esaurito il proprio portato e che nei fatti durerà ancora a lungo. Però di Pasolini o Ungaretti o Pavese, per esempio, resta l’unicità, con la quale non hanno nulla a che vedere le scimmiottature degli epigoni, ben lontani da quella cifra. Per Smaldone, che è davvero una voce autonoma e originale, non si tratta comunque di un “riflusso” o di una restaurazione, né di un ripensamento della componente meramente stilistica, bensì di un vero e proprio atto di disobbedienza verso un contesto intellettuale di replicanti, asfittico e ripetitivo, che celebra se stesso ma affoga nella liquidità insensata di una società povera di valori e di significati, sovraccarica di falsi miti.
D’altro canto il poeta altamurano non si limita all’esplorazione del Novecento, dal quale trae soprattutto l’eco di un modo pascoliano di concepire la poesia: da uomo di studio qual è, risale la corrente del tempo attraversando nei versi i significati hegeliani della fenomenologia dello spirito, ritrova il senso poetico di un Foscolo, di un Leopardi, e poi indietro a incontrare Dante e indietro ancora fino alla classicità della tragedia e del mito. Ritrova temi antichi, o meglio eterni, che attraversano l’oggi con la stessa forza del passato. Per questa ragione qui non si tratta di archeologia dello stile né dei costrutti letterari, si tratta ben più distintamente di ricondurre la versificazione dentro una linea evolutiva che restituisca valore alle origini. Il solco di una tradizione che nella creatività di Smaldone diventa anche un luogo di ripensamento del linguaggio in termini semiotici, di attenta ricognizione di lessemi, di elementi sintagmici e di motivi ritmici e sonori, da reinterpretare dentro una scrittura che ha il coraggio di gridare forte e chiaro che la poesia è un codice comunicativo altissimo e non può essere svilita in una prosa accidentata, dove basta l’andare casualmente a capo per fare di ciascuno un poeta, come (sporadicamente) rilevano con ironia gli sferzanti luoghi comuni della (poca) critica letteraria non addomesticata dalle esigenze editoriali.

Ne sortisce una versificazione meditata, dove l’atto creativo, la poiesis, procede sulla pagina con una scansione perentoria, ritmata, con una gamma di suoni che va dalla compostezza quasi ieratica all’urgenza dell’aforisma o all’ironia dell’epigramma, e dove significato e significante assumono i profili di elementi ermeneutici. Di rilievo la perfetta rispondenza del tono poetico alla costruzione sintattica, rispondenza che si traduce nell’eleganza dello stile. Tono poetico, oltretutto, che si apre alla polifonia anche all’interno di una stessa silloge, quando la lirica si alterna all’elegia, al prosimetro, alla narrazione visionaria, alla metafisica. Sul piano dei contenuti, le aree tematiche includono il dato della storia e quello dell’esperienza, il portato atavico di un Sud irrisolto e la prospettiva di un mondo in divenire, il significato dei sentimenti e il senso identitario, insomma una pluralità di temi e suggestioni quale difficilmente si può rinvenire in un unico autore. Tantomeno è facile incontrare una ricchezza espressiva – formale e sostanziale – i cui elementi sono messi in correlazione tra loro in modo tanto compiuto. Tutto questo fa pensare alla grande lezione di Bodini, con il quale Smaldone ha diverse cose in comune, come lo sguardo attento alla Spagna oppure la lucida irregolarità verso il sistema: come Bodini sembra avvertire fortemente il sangue antico che scorre nelle vene del Sud e che rimanda a una storia millenaria, contraddittoria, laddove l’interfaccia tra il Mezzogiorno e l’altrove è stata sempre rappresentata da un sistema di sottogoverno, gattopardesco, occhiuto; ma al di qua delle tracce evidenti della Storia si è generata una cultura eretica, irregolare, visionaria e cosmopolita, cresciuta in una terra di mezzo del pensiero e dell’essere dove regna l’antitesi tra la sudditanza e la disobbedienza, il mito e il quotidiano, la Storia e il sogno.
In termini di pubblicazioni prodotte, il percorso di Smaldone si articola fin qui nelle sillogi Del vento e del rovescio della medaglia (2003), Gente (2009), Atomi (2011), Poesia semplice (2014), La contadina furba, ovvero il sassolino ridotto in polvere che trovò dimora in una scarpa fuori moda (2016), Sine die (2017), Alta sui gorghi – miscellanea di critica e poesia – dieci poesie inedite (2017), Sottrazioni (2018), Disobbedienza (2018), Viene una seconda volta il cane fulvo (2019), Per ischerzo (2020), La cura, poesie composte su fotografie di Oscar Ramirez Dolcet (2021), Ontologia erotica (2021), Dels calçots al 3d10 La meva Catalunya (2022), nei romanzi Se i tuoi occhi un giorno (2012) e Sub noctem (2016), in una raccolta di filastrocche dal titolo Sotto la panca – filastrocche per tutti, o quasi – (2016) e infine in una raccolta di racconti intitolata ABS – apparente buona salute –, (2017). Un percorso arricchito, nel 2020, dal Premio Montale Fuori di Casa sezione Mediterraneo per la Poesia.
Lungo tutto questo andare della scrittura, il valore che Smaldone riconosce alla tradizione non deve trarre in inganno, perché anzi la sua poesia è una costante sperimentazione, uno spaziare sui significati logici (nel senso di incarnati nel logos, al tempo stesso parola e pensiero) e ontologici, uno scomporre e ricomporre una metrica rigorosa sebbene slegata dal numero delle sillabe, una ricerca del verso pieno, sonoro e portatore di significato. Premesse stilistiche dalle quali dipana l’osservazione poetica:
Un papavero, di fianco la rotaia brunita,
per esempio esordisce, con un’immagine crepuscolare che sembra quasi un’istantanea, nel primo verso di un componimento della raccolta intitolata non a caso “Disobbedienza”, per poi svettare con la visione
s’erge
d’una poetica essenziale.
Trabalza appena, se il vento sbuffa,
e si raddrizza fiero,
riprende il suo vigore.
Se pure appaia d’esile fattura,
fa eco alla natura intera
il brulicare rosso della sua gorgiera.
E io che ho scollinato e risalito il tempo,
io, voce d’una genìa futura,
m’involo, come farebbe un minuto insetto,
sul mio caduco fiore
e lì ristò, romito e universale,
a raccontare il breve viaggio della progenie umana.
Qui come altrove la sua poetica sembra non solo rifuggire, ma addirittura contrastare la suggestione di aree semantiche casuali, indeterminate, ambigue, insomma il disordine espressivo. Tra le caratteristiche strutturali che conferiscono forte personalità alla sua scrittura c’è invece l’uso sapiente della metafora, le calibrate costruzioni sinestesiche, l’originale e molto contenuto inserimento dei segni d’interpunzione o la loro omissione. Finanche l’anafora “io” qui è limata fino all’essenziale e non ingombra la visione. Di questo largo ed efficace strumentario semiotico è conferma, per esempio, la poesia Il delfino, dalla raccolta “Del vento e del rovescio della medaglia”:
Ti amo perché hai
l’intelligenza di un delfino
e una precisa coscienza sociale
per la tua struttura morale
per il tuo aspetto distinto
per il tuo modo di argomentare.
Ti amo per la tua discrezione
per la tua collocazione nel mondo
senza dubbio
per la generosità del tuo seno
principalmente
perché non mi ami ancora.
Per questo ti amo e farnetico.
oppure la poesia La piana delle arance, dalla raccolta “Gente”, dove l’anafora e la paratassi si sposano a evocativi surrealisti come nella lezione di Éluard:
Ho visto tuo padre salire la montagna
con il passo paziente del cacciatore esperto
su per il sentiero che attraversa gli ulivi
fino alla cima del Belvedere
L’ho visto stringerti la mano
coprirti i capelli con il suo cappotto
perché la pioggia non ti bagnasse
e il freddo non ti fosse ostile
Suonava per te il battere d’ali
del falco solitario sulla piana delle arance
L’estate impetuosa ti riempì le tasche
di spighe di grano e di pesche rosse
Ho visto tuo padre seduto su un masso
e tu al suo fianco a interrogare un fiore
e dal pontile ho scorto il pesce
e una moneta in fondo al fiume
Ho visto tuo padre salire la montagna
la neve cadere sulle ringhiere arrugginite
ho visto i tuoi occhi riflessi nel pozzo
cercare i suoi occhi tra i segreti dell’acqua
Suonava per te il frusciare dei rami
per te suonavano l’arpa e il violino
Raccolsi la moneta dal fondo del fiume
raccolsi i tuoi occhi dal profondo del pozzo
Una versificazione, quindi, estremamente accurata e nitidamente orientata. D’altronde lo stesso autore in un suo articolo spiega che: Se è vero che ogni poesia è la parte ultima di un processo cognitivo, esplorativo e di elaborazione di una materia alla quale è fortemente connaturata l’aura evocativa, altrettanto vero è che nella sua elementare intuizione da parte del lettore essa è essenzialmente la codificazione linguistica di quel processo che si genera nella mente e nell’animo del poeta; codificazione che, proprio in quanto sistemazione e ordinamento di tutti i fattori che contribuiscono alla definizione dell’atto creativo, racchiude in sé delle informazioni che potrebbero passare da un io interiore ad un altro, dalla condizione ontologica del poeta a quella del lettore, dalla sfera cognitiva del primo alla sfera cognitiva del secondo. Il che non nega la consapevolezza della irriconoscibilità della Poesia nel mondo, ma la converte in probabilità, nell’assolvimento di quel dovere/bisogno etico al quale si faceva riferimento in esordio a queste note. Qui si realizza la sintesi tra l’io storico e l’io antropologico che è propria della poesia contemporanea e che pone Smaldone quale contemporaneo tra i contemporanei. C’è un componimento della raccolta “Atomi” che riassume un po’ di tutte le considerazioni sin qui svolte, compresa quest’ultima, ed è tra le poesie più belle e significative dell’autore (la più bella a parere di chi scrive). Parole di visione e di testimonianza combinate con rigore metrico e sostanza emotiva. Una poesia di respiro maieutico e di grande ricchezza stilistica che racchiude in sé toni lirici e sinestesia, metafora e passaggi colloquiali, anafora e decostruzione del senso, immediatezza espressionista e surrealismo onirico. Si intitola La piccola venne al mondo e il mondo ne fu lieto:
Che riccioli belli ti porti alla nuca
trucioli neri che raccolgono l’aria
ci passi la spazzola e il sole li asciuga
il caldo di un sole di plastilina
Lo sanno i poeti quando sto per partire
con loro divido i verbi e le botte
tu sola sai quando sto per tornare
con te divido la soglia dei sogni
Stattene libera, nella musica e nel corpo
nel cibo tra i denti, nel naso che gocciola
Stattene libera nei no che dirai
nelle promesse che non potrai mantenere
nelle febbri estive, nelle porte che si chiuderanno
negli incontri felici nei supermercati
Devi assaporarla la libertà
devi pretenderla come un battesimo laico
per tutte le creature che potrai immaginare
nello sterminato regno della tua fantasia
Il giorno che ti rivedrò e tu sarai grande
mi torneranno in mente le parole della maliarda
i suoi tre tocchi sulla tua fronte
i suoi occhi a interrogare la bacinella di magnolia
e l’acqua e l’olio a bagnare la strada
per mandar via la malasorte
Capirò che l’unica cosa che ti avrà affascinato
sarà stato il bisogno di essere altrove
per non perderti nulla di ogni prossimo viaggio
La parola poetica di Smaldone, però, a volte spazia così tanto da porre all’autore stesso e al lettore interrogativi in bilico tra elementi che la filosofia ricondurrebbe a profili deterministici o meccanicistici. Vero è che tra parola filosofica e parola poetica non può esserci un rapporto subordinato bensì di reciproca conoscenza, ed è su questo che l’autore lavora nel percorso di comprensione della realtà, ponendosi su punti di vista di volta in volta differenti, senza alcun pregiudizio. La ricerca si orienta di conseguenza verso una scrittura che attraverso il filtro poetico si faccia pensiero senza soluzione di continuità, sino a dischiudere orizzonti inesplorati, a mostrare le cose in una nuova luce come fosse una sfida: ripensare tracce inedite della storia del pensiero. Come accade nei versi del componimento Le cose, dalla raccolta “Poesia semplice”:
Le cose accadono, macchiano
stanno in testa e in pancia
si mettono tra il pari e il dispari
a portare buona e cattiva novella
Le cose onorano e tolgono onore
ai margini della comprensione
e della morale comune
Rispondono “sia fatta la tua volontà”
Le cose hanno il senso della liturgia
della periferia della città
Creano disagio e attesa
ci fanno dimentichi del corpo
versi fin qui dal tono icastico, poi un’accelerazione verticale verso l’allegoria
dei lacci e dell’annuire
Le vene, tutte, lo sanno
Le cose vanno dov’è il sangue
e dove il sangue si prende
A proposito di allegoria, ci sono poi passaggi, nell’anabasi di Smaldone, dai quali la pulsione allegorica emerge insieme a una vitalità dai contorni sensuali, a un’energia frizzante. Frammenti, suggestioni, voci dell’inconscio, visioni suscitate dalla molteplicità dei punti d’osservazione che l’autore sceglie lungo il cammino. Varie declinazioni di una creatività che riveste l’ossimoro di essere compostamente irrequieta. Di seguito ne proponiamo qualcuna.
Le escursioni primaverili offrono infiniti spunti, dalla raccolta “La contadina furba, ovvero il sassolino ridotto in polvere che trovò dimora in una scarpa fuori moda”:
Mostrandomi il piede
per riscattare il corpo intero
hai detto ‹‹guardami››
ma eri nuda solo a metà
Allora ho scritto
per intuire il resto
quello nascosto dall’improvvido drappeggio
Quale sarà il nostro prossimo gioco?
Mi aspetterai dopo il tornante
nascosta dietro un nespolo?
dal volume “Alta sui gorghi, miscellanea di critica e poesia”:
Se l’intera foce del Belice
fosse per intero un lavacro,
dal pianoro ti verrei incontro,
annaspando e barbugliando per il caldo.
Verrei per avere un’abluzione,
un ristoro, un’erezione;
per vederti mulinare
con le braccia dentro il mare.
Frinirebbe una cicala.
Un ricciolo sabbioso si alzerebbe
per condurti a me,
arreso all’ombra fiacca di un giunco,
pronto a prendermi l’acqua
che saprai darmi.
dalla raccolta “Sottrazioni”:
Ruzzolo, trottolo,
lumeggio, escogito il sintagma:
rimettimi ogni ùzzolo.
Nei secoli dei secoli, dalla raccolta “Per ischerzo”:
«Dio non esiste!»
«Io Dio l’ho visto!»
«Allora nell’occhio lo tieni nascosto!»
dalla silloge “Ontologia erotica”:
Mi offre la vita il pretesto di dire deciso all’inchiostro:
‹‹Le spalle ti volto, per Cristo! Mi dono a una mina appuntita››.
E da una matita, splendore, da questa mistura d’odore
d’argilla e grafite, le mie più impudiche parole scolpite
sembrano stare sul fianco illibato del foglio.
In questo rigoglio di lingua sontuosa, in quest’amorosa
distesa di lemmi, da un bozzolo sembri racchiusa,
distinta dal resto del mondo per l’indole tua a volare.
Godere e lasciarsi disfare dall’aura potente di un verso,
rivolgere incredulo il corpo al rito del suo copulare
e lì riscoprirsi crisalide in ogni vocale e in ogni sillaba
farsi succinta, sospinta infine dal fallo del perifrasare.
Allora, compiuto il prodigio, divieni farfalla regina:
discendi e senza un indugio su me ti vieni a posare.
Altra caratteristica originale – forse la più sorprendente – della poesia di Smaldone è la capacità di proiettare e gestire la luce all’interno delle visioni evocate dai versi. Ci sono componimenti che sembrano richiamare la penombra di candele o di albe e tramonti, altri dove la scena sembra immersa in uno sfolgorante bagno di sole, altri ancora dove “la luce pare di carne cruda” per dirla con Bodini, e poi quelli dove il lucore e l’ombra giocano nel chiaroscuro di immagini al tempo stesso metafisiche e crepuscolari, nello sfondo di una natura impassibile:
Lieve il ginepro vela
di livida ombra la cala,
e sui calchi d’arena dispensa,
e ogni tanto sui gechi,
la sua sonnolenta sapienza.
Si adunano piccoli amanti
lontani dai lembi del sole,
già prossimi ai cupi canali
e ai canneti,
intenti a confondersi quieti
tra i fissi graniti,
tra i solitari querceti.
Qualcuno siede su un’asse,
passa la mano sul dorso di un cane
che ama la vita dei pini,
ne sente l’odore
senza conoscerne il nome.
E passi anche tu
in un chiaro silenzio di morte
e di estate;
passa la pronuba notte
sulle misere strade sterrate.
Le due più recenti esperienze creative dell’autore altamurano si incrociano con la Spagna: la prima è il volume “La cura” (La Banya edicions , 2021) che racchiude fotografie del catalano Oscar Ramirez Dolcet e poesie di Bartolomeo Smaldone, libro che segna la conferma di una forte proiezione del poeta alla visione complessa che procede per immagini e parole, esattamente come si rileva nel componimento breve La corrosione:
Contiene una bellezza dolorosa
il fiore che sfiorisce lentamente:
era presente, adesso non è niente
se non il tempo che in lui riposa.
La seconda rientra in un progetto articolato che accanto alla pubblicazione del libro “Dels calçots al 3d10 La meva Catalunya”, (La Banya edicions, 2022) ha visto un gemellaggio tra l’Italia e la Catalogna promosso dall’Associazione Culturale Spiragli di cui Smaldone è presidente. Della silloge fa parte la poesia Lo stormo (a Blanca Ferrer Piñol):
Da un antro del cielo ottobrino
balenava sul cedro in giardino
l’astro lontano,
e quel lustro inatteso sul fusto,
un incipit di impronta pascoliana, al quale segue il dilagare di tutti i paradigmi espressivi, delle costruzioni sintattiche e delle straordinarie contaminazioni che caratterizzano la poetica dell’autore, quasi a suffragare ogni considerazione svolta in queste note; sono versi che comprovano il valore del lungo lavoro compiuto sin qui da un poeta vero, contemporaneo e intellettualmente onesto, disobbediente al conformismo e devoto senza riserve solo alla scrittura
sui rami rossastri, rivelava
il richiamo maestoso del corpo celeste,
ci mostrava sul pallido giallo del frutto
il fitto spazio che attornia le stelle.
Blanca, ricordi? Fioriva allora il viburno
nella tepida bolla notturna,
si udivano i trilli dei grilli
come cantassero a luglio; e le ciglia
e le palpebre e gli occhi di meraviglia
ci tratteggiavano i volti, e noialtri,
poc’anzi loquaci e capaci di arguzie,
velati di grazia ora stavamo in silenzio.
E accadde. Accadde che un sincrono volo
di uccelli scrosciasse squassando la volta,
tracciando fulmineo la rotta che all’Ebro
l’avrebbe condotto tra i giunchi marini,
tra le dune convesse, inseguendo la sorte
interdetta a noi piccoli, piccoli umani.
Appare evidente, in definitiva, che l’anabasi di Smaldone abbia già raggiunto un traguardo importante: la maturità della scrittura. Nei suoi versi il peso di ogni sintagma è ponderato, la costruzione sintattica è calibrata, il tono poetico è coerente al tema trattato e ogni parola è proiettata verso la perfezione. La versificazione è ricca di assonanze e di ritmi e sostiene una struttura semiotica aperta alla visione del lettore, che “entra” nella sua reazione interpretativa. I significati ontologici poggiano su un’impalcatura espressiva solida che rifugge dal superfluo e tende a raggiungere una forma ideale. Partendo da queste premesse, si può affermare che sarebbe oggi opportuna un’opera antologica che racchiuda in un unico volume la testimonianza articolata del percorso fin qui compiuto. Non certo per cristallizzarlo, perché l’energia creativa è tanto forte da far comprendere che il cammino non si arresterà, piuttosto per offrire al panorama editoriale un’opera densa di significati e contenuti, di vera poesia, quale strumento importante di lettura e riflessione.