Maria Grazia Insinga: l’inconscio e la parola.

di Giuseppe Scaglione

l’altra poesia fatta carne io fatta carnefice
la chiave nella toppa non prima non dopo
e cercate sempre nel posto più sbagliato
del resto scrive e dell’altra ed etcetera
prendere a distanza distanza dalla distanza
equivale a nessuna distanza a un niente

La declinazione contemporanea della poesia nella sua codificazione linguistica non ha precise “leggi” se non quella di tradursi in visioni e di non essere didascalica. Premesso questo, nella raccolta di componimenti Tirrenide (Anterem, 2020) della poetessa e musicista siciliana Maria Grazia Insinga ciò che a un primo approccio colpisce e seduce è una lingua proposta al suo stato nascente, priva di segni d’interpunzione, fatta di movimenti, polisemie e metamorfosi che sorreggono una struttura semiotica dove il rapporto tra significati e significanti ha al suo interno incroci e molteplici possibilità di correlazione, finanche può spingersi all’elisione stessa di ogni loro biunivocità:

versare versare o conversare
con deitudini conservando
la purezza di un minerale
e mi porge la terra il pane
il sudore e allaga a ore rime
bulimiche di selvatiche dee

oppure all’identificazione dei due fattori, in una sorta di relazione primaria

la forma nello spazio è pur sempre distanza e pure
luogo e lì si toccano e c’è nell’intero di chi è solo
una misura di prosa che qui non c’è non c’è racconto
non dirsi ma essere che va verso un altro intero
per contraddirsi dirsi contro e dunque forma dimmi

La configurazione come arte poetica di questo linguaggio deve compiersi definitivamente ogni volta che incontra la reazione interpretativa del lettore, a patto che questi la riporti alla propria declinazione esistenziale e rinunci alla tentazione della parafrasi. Si può rinvenire in questo assunto alcuni principi ispiratori dell’eventualismo italiano, tappa importante dell’arte contemporanea, che sposta l’energia del momento creativo all’attimo in cui l’opera incontra la reazione del fruitore. La scrittura di Insinga è dunque energia, in una sintassi aperta al libero impulso creativo: sono i versi stessi di Tirrenide a chiarire che ogni altro modello di costruzione sintattica della parola poetica sarebbe di per sé insufficiente a racchiudere l’energia creatrice che caratterizza le visioni della poetessa. Conta il sintagma, l’unità sintattica autonoma, non la sua correlazione formale. Inoltre è necessario deprivare il linguaggio di tutto ciò che è orpello, che è meramente stilistico o decorativo: al centro della versificazione rimane soltanto la voce – a varie frequenze – di un “io” antropologico che si riversa all’esterno per cercare l’altro e incrociarne l’ascolto. Nessuna concessione all’ego ipertrofico dell’autore e al solipsismo che purtroppo (e troppo spesso) caratterizzano determinata poesia che pretende di essere contemporanea.

La parola poetica dell’autrice sembra invece lottare per ritrovare le origini, evocate dal Tirreno perché è dal mare che origina la vita sulla terra: Tirrenide è la madre antica di una parola che la ricongiunge a sé, e dentro lo svolgersi di un linguaggio ellittico ed essenziale fatto di immagini intime, talvolta impenetrabili nel loro splendore oscuro e misterioso, la rimette nuovamente al mondo, la re-crea:

dare forma e poi rimettere le mani in pasta
e recreare un’altra forma prossima all’infanzia
della precedente e precederla in un cerchio
un ciclo due anzi un triciclo o l’uroboro

E sembra affrontare inconsce paure connaturate alla condizione umana per afferrarne le redini e indirizzarle all’armonia, attraverso il ritmo dei versi e la forza delle visioni:

e dall’infinito areale un corteo di posidonia sbuca
mostruose evoluzioni di unicorni e sirene in miriadi
di ippocampi la cui polvere è cura è linea di flusso e luce
tra opera viva e opera morta pinne dorsali disseccate
rapidissime farfalle cavalcatura e guida dei mostri

La scrittura poetica di Insinga va tuttavia guardata da diversi punti di osservazione, non avrebbe senso e comunque sarebbe fuorviante ridursi alla mera funzione metalinguistica. Essa sta alla poesia contemporanea come il dripping di Pollock sta all’espressionismo astratto: il quantum, l’energia ad alta temperatura che la caratterizza non risiede nella struttura formale ma nell’idea di poesia e di arte. Ovvero di un’area privilegiata dove affiora l’inconscio e che può esprimere per se stessa i moti profondi dell’essere. E Tirrenide esprime anche, per esempio, quella unheimlich freudiana che pervade e accomuna molta della migliore poesia contemporanea, la prospettiva perturbante che fa avvertire le situazioni (o i luoghi, le cose) come familiari ed estranee al tempo stesso:

sul farsi del nulla sul farsi del verso
incepparsi in questa vita e nelle parallele
e in altri nulla nulla nulla e bastava uno

l’infanzia avrebbe amplificato tutto
e pure arrivare alla sua altezza la fine
e fine senso di non ritorno o in farsi
tutto il senso compreso il non senso
ha senso e non torna qui è un gelo
lei non c’è e ci casca dentro al gelo
pace all’anima sua niente alla mia
arrivare a quell’altezza e non sapere
se acqua luce fuoco o buio e caderci
dentro dal giorno della sua nascita

Così, in questo affiorare dell’inconscio, la parola dell’autrice disegna istanti, suoni, situazioni come se la visione accadesse sotto ipnosi, fa affiorare dal buio strati di significato di cui si è altrimenti inconsapevoli. Accogliendo quel buio così prossimo all’origine, emerge una luce non ancora tradotta dagli occhi e che ci mette in grado di vedere l’oscuro che ciascuno porta dentro di sé, apre alla conoscenza superiore. Le esperienze più significative della vita, sembra voler testimoniare Insinga, non risiedono nell’area dell’immediatamente comprensibile e contengono una parte oscura che però restituisce luce e significato nel tempo: la poesia custodisce dentro di sé ed esprime quella parte di oscurità, di indecifrabilità; ed è proprio della poesia un flusso di ritorno verso l’origine, come unica modalità di comprensione del presente storico in grado di farci essere contemporanei.

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