l’altra poesia fatta carne io fatta carnefice la chiave nella toppa non prima non dopo e cercate sempre nel posto più sbagliato del resto scrive e dell’altra ed etcetera prendere a distanza distanza dalla distanza equivale a nessuna distanza a un niente
La declinazione contemporanea della poesia nella sua codificazione linguistica non ha precise “leggi” se non quella di tradursi in visioni e di non essere didascalica. Premesso questo, nella raccolta di componimenti Tirrenide (Anterem, 2020) della poetessa e musicista siciliana Maria Grazia Insinga ciò che a un primo approccio colpisce e seduce è una lingua proposta al suo stato nascente, priva di segni d’interpunzione, fatta di movimenti, polisemie e metamorfosi che sorreggono una struttura semiotica dove il rapporto tra significati e significanti ha al suo interno incroci e molteplici possibilità di correlazione, finanche può spingersi all’elisione stessa di ogni loro biunivocità:
versare versare o conversare con deitudini conservando la purezza di un minerale e mi porge la terra il pane il sudore e allaga a ore rime bulimiche di selvatiche dee
oppure all’identificazione dei due fattori, in una sorta di relazione primaria
la forma nello spazio è pur sempre distanza e pure luogo e lì si toccano e c’è nell’intero di chi è solo una misura di prosa che qui non c’è non c’è racconto non dirsi ma essere che va verso un altro intero per contraddirsi dirsi contro e dunque forma dimmi
La configurazione come arte poetica di questo linguaggio deve compiersi definitivamente ogni volta che incontra la reazione interpretativa del lettore, a patto che questi la riporti alla propria declinazione esistenziale e rinunci alla tentazione della parafrasi. Si può rinvenire in questo assunto alcuni principi ispiratori dell’eventualismo italiano, tappa importante dell’arte contemporanea, che sposta l’energia del momento creativo all’attimo in cui l’opera incontra la reazione del fruitore. La scrittura di Insinga è dunque energia, in una sintassi aperta al libero impulso creativo: sono i versi stessi di Tirrenide a chiarire che ogni altro modello di costruzione sintattica della parola poetica sarebbe di per sé insufficiente a racchiudere l’energia creatrice che caratterizza le visioni della poetessa. Conta il sintagma, l’unità sintattica autonoma, non la sua correlazione formale. Inoltre è necessario deprivare il linguaggio di tutto ciò che è orpello, che è meramente stilistico o decorativo: al centro della versificazione rimane soltanto la voce – a varie frequenze – di un “io” antropologico che si riversa all’esterno per cercare l’altro e incrociarne l’ascolto. Nessuna concessione all’ego ipertrofico dell’autore e al solipsismoche purtroppo (e troppo spesso) caratterizzano determinata poesia che pretende di essere contemporanea.
La parola poetica dell’autrice sembra invece lottare per ritrovare le origini, evocate dal Tirreno perché è dal mare che origina la vita sulla terra: Tirrenide è la madre antica di una parola che la ricongiunge a sé, e dentro lo svolgersi di un linguaggio ellittico ed essenziale fatto di immagini intime, talvolta impenetrabili nel loro splendore oscuro e misterioso, la rimette nuovamente al mondo, la re-crea:
dare forma e poi rimettere le mani in pasta e recreare un’altra forma prossima all’infanzia della precedente e precederla in un cerchio un ciclo due anzi un triciclo o l’uroboro
E sembra affrontare inconsce paure connaturate alla condizione umana per afferrarne le redini e indirizzarle all’armonia, attraverso il ritmo dei versi e la forza delle visioni:
e dall’infinito areale un corteo di posidonia sbuca mostruose evoluzioni di unicorni e sirene in miriadi di ippocampi la cui polvere è cura è linea di flusso e luce tra opera viva e opera morta pinne dorsali disseccate rapidissime farfalle cavalcatura e guida dei mostri
La scrittura poetica di Insinga va tuttavia guardata da diversi punti di osservazione, non avrebbe senso e comunque sarebbe fuorviante ridursi alla mera funzione metalinguistica. Essa sta alla poesia contemporanea come il dripping di Pollock sta all’espressionismo astratto: il quantum, l’energia ad alta temperatura che la caratterizza non risiede nella struttura formale ma nell’idea di poesia e di arte. Ovvero di un’area privilegiata dove affiora l’inconscio e che può esprimere per se stessa i moti profondi dell’essere. E Tirrenide esprime anche, per esempio, quella unheimlich freudiana che pervade e accomuna molta della migliore poesia contemporanea, la prospettiva perturbante che fa avvertire le situazioni (o i luoghi, le cose) come familiari ed estranee al tempo stesso:
sul farsi del nulla sul farsi del verso incepparsi in questa vita e nelle parallele e in altri nulla nulla nulla e bastava uno
l’infanzia avrebbe amplificato tutto e pure arrivare alla sua altezza la fine e fine senso di non ritorno o in farsi tutto il senso compreso il non senso ha senso e non torna qui è un gelo lei non c’è e ci casca dentro al gelo pace all’anima sua niente alla mia arrivare a quell’altezza e non sapere se acqua luce fuoco o buio e caderci dentro dal giorno della sua nascita
Così, in questo affiorare dell’inconscio, la parola dell’autrice disegna istanti, suoni, situazioni come se la visione accadesse sotto ipnosi, fa affiorare dal buio strati di significato di cui si è altrimenti inconsapevoli. Accogliendo quel buio così prossimo all’origine, emerge una luce non ancora tradotta dagli occhi e che ci mette in grado di vedere l’oscuro che ciascuno porta dentro di sé, apre alla conoscenza superiore. Le esperienze più significative della vita, sembra voler testimoniare Insinga, non risiedono nell’area dell’immediatamente comprensibile e contengono una parte oscura che però restituisce luce e significato nel tempo: la poesia custodisce dentro di sé ed esprime quella parte di oscurità, di indecifrabilità; ed è proprio della poesia un flusso di ritorno verso l’origine, come unica modalità di comprensione del presente storico in grado di farci essere contemporanei.
Non è difficile guardarsi nel cuore mentre la grande notte del tempo avanza per diventare oscurità ci vuole il coraggio dei semplici per abbracciarsi nell’amore che c’è. In un gioco di scatole vuote al primo posto dobbiamo essere amore l’amore che siamo perché noi siamo fatti d’amore di quell’amore che dovrebbe venire prima di tutto su questa terra marcia nel male.
Sono questi i versi che possono agevolmente essere assunti a epitome della raccolta poetica Un caffè in due (A&B editrice, 2022) del poeta, scrittore e critico letterario Nicola Vacca, che questa volta ci sorprende e sorprende se stesso (come dovrebbe essere per ogni poeta) con un libro di poesie d’amore. L’abrasivo e irregolare protagonista di una lunga stagione poetica di impegno civileeautore di numerose opere letterarie irriverenti al sistema – tra le quali spicca la Trilogia del disagio, ovvero le sillogi Mattanza dell’incanto (2013), Luce nera (2015, Premio Camaiore 2016) e Commedia ubriaca (2017) – adesso pubblica infatti un’opera che afferma senza mezzi termini – nell’enjambementsiamo fatti d’amore, di quell’amore che dovrebbe venire prima di tutto – che Noi amiamo sempre… malgrado tutto; e questo «malgrado tutto» copre un infinito, come recita l’appropriatissimo esergo di Cioran, personaggio molto amato da Vacca e al quale lo accomuna una visione lucida e disincantata dell’esistenza.
(in copertina un’opera di Marc Chagall)
Nonostante l’apparente svolta verso un’area tematica finora poco o niente esplorata da Vacca, sul piano ontologico in tutte le quattro sezioni del libro resta tuttavia una marcata linea di continuità con la propria precedente produzione letteraria, che consiste nel ribaltare luoghi comuni e convenzioni: in questo caso, il poeta sovverte gli stereotipi della poesia stessa. Intanto nella scrittura, che spazia nell’affollatissimo territorio “amore”/”sensualità”tenendosi ben lontana dai parametri linguistici retorici e dai toni espressivi sovrabbondanti invalsi in una certa poetica largamente adottata dai più. Vacca invece, pur trattando i medesimi temi, resta fedele alla costruzione sintattica nitida e all’efficacia semiotica del suo linguaggio immediato e privo di retorica, sorvegliando le metafore e la sinestesia e molto concedendo alla paratassi. Chi scrive ha già affermato in passato che Vacca sviluppa uno stile linguistico molto personale, il quale pur strutturandosi su elementi della koinè esprime rimandi e citazioni di indubbia ricchezza. Rifiutando suggestioni estetizzanti nella scelta della singola parola, il linguaggio dell’autore si dipana dentro un canovaccio semiotico il cui nitore formale, dorico, sobrio, è di una eleganza fuori discussione.Considerazioni che valgono tutte anche a proposito di Un caffè in due.Anche qui, infatti, il tono poetico – quasi prosimetrico – è alto ma al tempo stesso lontano dal lirismo o dall’elegia; gli evocativi si affacciano sì nella scrittura ma con una modalità che coniuga l’immediatezza espressiva all’andamento limpido dei versi. Insomma una versificazione del tutto autonoma rispetto al consueto contestualizzare letterario e molto originale nella costruzione linguistica, pur trattando una tematica largamente diffusa. Se nella poesia d’amore c’è una qualche possibile assonanza di tono poetico e analogia di puntuale uso della paratassi è forse con Raymond Carver (È quella la casa dove, in piedi sulla soglia,c’è una donna con il sole nei capelli. Quellache è rimasta in attesa fino ad ora.La donna che ti ama.L’unica che può dirti: “Come mai ci hai messo tanto?”).
Sul piano gnoseologico, l’osservazione poetica rifiuta ogni deriva emozionale o manieristica. Gli uomini amano in fretta e odiano con calma, scriveva per esempio Byron; ebbene Vacca questo lo sovverte e ci parla di un amore sì urgente e denso, ma che vive di una prospettiva lunga, pervade la quotidianità ed è quotidiana sostanza vitale. Il poeta – come sempre ha fatto e lo sa bene chiunque lo segua – anche qui s’interroga sulla natura del rapporto che lega le vicende e le cose ai profili esistenziali: ogni componimento attraversa un determinato aspetto dell’esistenza e disegna scene colme di riferimenti alle piccole, grandi cose. Il caffè, il lievito madre, le lenzuola sfatte, la tavola apparecchiata, i fiori. Sono senza dubbio metafore dentro una semantica del quotidiano, ma non si tratta della montaliana poetica del correlativo oggettivo, bensì del solido ancoraggio al vissuto che Vacca ha sempre espresso nei suoi versi, a qualunque area tematica essi si siano orientati. Un ancoraggio che sollecita l’esplorazione senza pregiudizi della condizione umana con tutta la sua precarietà e induce ad analizzare con oggettività il valore della vita e della morte, del viaggio terreno, nella piena coscienza degli assiomi “finitudine” e “dolore”, riconoscendo però che l’amore e la sensualità sono gli unici elementi della realtà, oggettiva e soggettiva, capaci di sospenderne il senso e il nonsenso.
In questo calore che riscalda a lungo Vacca sembra rivelarci la sua personale definizione dell’amore: ciò che pone fine a un’esistenza solitaria, la forza opposta al male, la sua elisione. Non è una semplificazione, né una banalizzazione, è l’assunto di un’opera letteraria complessa che attraversa molte declinazioni della quotidianità prima di diventare poesia. Scrive opportunamente Martino Ciano nella prefazione, riferendosi al costrutto identitario prospettato in versi dall’autore, che l’amore è soprattutto un linguaggio con la sua grammatica e tra le sue forme e regole non ammette né violenza né ambiguità, ma neanche banalità.Cosa c’è dunque di meno banale, o di più difficile d‘altro canto, che completare il racconto urticante del mondo mostrando credibilmente al tempo stesso le sue splendide eccezioni? Così il libro diventa anche una sfida vinta, per uno spirito inquieto e disincantato come è Vacca, quella cioè di raccontare la purezza del cuore, il dilagare sublime dei sensi, la quotidiana felicità possibile, restando perfettamente in pace con se stesso.
(ph. Gaetano del Mauro)
Tuttavia – e questo testimonia ulteriormente la coerenza di questo libro con i paradigmi poetici ai quali l’autore si è sempre riferito – il partecipare in maniera così piena della felicità del mondo non fa che umiliare maggiormente l’insensato parossismo esistenziale contro il quale Vacca ha spesso puntato il dito, addirittura definendolo Commedia ubriaca (giusto il titolo di un altro suo libro); deriva esistenziale che è conseguenza delle assurdità irriducibili e sfuggenti che si annidano nell’animo umano:
Il fondo è nero ma nella notte cerco la luce sono un uomo colmo di gesti ho nelle mani un cesto di buoni propositi non si dovrebbe tradire la vita che è il frutto dell’albero della conoscenza dovremmo finire i nostri giorni affamati di bellezza e con gli occhi accecati dalla meraviglia piantare il seme del cambiamento perché dopo di noi tutto continui a essere
Emerge forte la convinzione che sia l’amore l’unica redenzione del mondo e che non sia giusto incatenarlo o forzarlo, e chi cerca di sottometterlo (tradire la vita) lo perde inesorabilmente e con esso perde l’unica possibilità di salvezza (perché dopo di noi / tutto continui a essere). La traduzione in versi di tale assunto fonda ampiamente sul dato dell’esperienza: Vacca sembra rivelarsi nel suo privato laddove risulta evidente che il libro è anche il racconto dell’amore che lo lega alla propria compagna, e ce ne svela la proiezione su una condizione esistenziale condivisa che tende alla reductio ad unum di due distinte e autonome soggettualità, spiegandoci il suo procedere. Quindi è l’io antropologico dell’autore a essere chiamato dentro la scrittura, ponendosi come punto di osservazione e al tempo stesso come protagonista. Un equilibrio difficile ma perfettamente raggiunto, che trova il suo zenit nella poesia che dà il titolo al libro e apre la raccolta, dove il contenuto autobiografico rafforza la naturale propensione di Vacca alle visioni immediate, che qui sono dirompenti nella loro vitalità e sensualità e sono espresse con un codice comunicativo altrettanto immediato, diretto, in una semantica degli enunciati poetici che esprime nitidamente il rapporto biunivoco tra l’autore e il suo linguaggio, la cui qualità e le cui alte frequenze sono da sempre tra i più importanti punti di forza della sua poesia.
Un caffè in due
La città ogni giorno si lecca le ferite i passanti per le strade si annoiano leggendo le bugie dei castelli di carta. Nessuno si siede al tavolino di un bar per condividere un caffè con il cuore in subbuglio nel cuore dell’altro. Il segreto dell’amore è un caffè in due da bere dalla stessa tazza e poi io accanto a te con un bacio che si dilegua in un bacio.
Se mi chiedi cos’è l’ora felice ti rispondo le due mani sul pianoforte di quel ragazzo che vive in angolo di Via Livorno. Suona di tutto e mi allieta in questo dormitorio che canta di rado il fruscio. È diplomato in pianoforte non esce da casa e saluta con un cenno. Esce solo per fumare. Dice di avere venticinque anni ma portati male: mangia solo pizza e beve cedrata. Non ha compagnia tranne un amico che viene a casa sua per ascoltare un suo brano. I due tacciono per ore. Ha un gatto molto socievole che si struscia sul mio cane cieco. Si arrampica in ogni dove e si addormenta sotto lo sgabello del piano. Il ragazzo suona la mia ora felice con la sua ora triste questo quartiere non lo sa.
Incontrare i versi che il modenese Nicola Manicardi pubblica nella raccolta poetica Carne e sangue (Oltre edizioni, 2021) significa immergersi in una rivelazione di chiara impronta neorealista, dove il lungo respiro dei versi, gli impianti sintattici essenziali e i ritmi completamente liberi parlano in modo diretto e non edulcorato del nostro tempo, inglobando nel discorso in modo sincretico ogni necessario riferimento culturale, oggettivo e di linguaggio, fino a sconvolgere la retorica poetica in favore di una “testimonianza” che anche stilisticamente è opposta alla retorica stessa. Una scrittura cruda però ricca di significati nitidamente espressi oppure impliciti; una lingua piana, tagliente, non troppo difficile da interpretare per il lettore a patto però che questi si liberi da ogni eccessiva fascinazione per l’artificio semantico, la scrittura muscolare, la costruzione retorica. La qual cosa tuttavia non è così semplice perché la lingua a cui molta della nostra poesia ci ha assuefatti tende ad avvalersi di tutti quegli elementi in modo più o meno fondante, o strutturalmente basilare. Comunque risultano essere quasi sempre presenti. Larga parte della poesia italiana è infatti per sua natura una qualche espressione della retorica, in senso linguistico e creativo ovviamente, mentre quello di Manicardi è un linguaggio poetico molto più vicino alla sacralità della parola e all’intensità della visione. Partendo da un orizzonte neorealistico, e magari proprio in virtù di questo, l’autore giunge a rappresentare il mondo postindustriale attraverso luoghi, scene, personaggi e storie che vivono ai margini dell’omologazione, del convenzionale, del funzionale al sistema. Ma con una costruzione lessicale in cui tutto si trasforma in racconto e in poesia e il tono espressivo è così straordinario e sottile da sembrare invisibile il confine tra i due codici comunicativi:
Lucio ha sessant’anni e non ha un lavoro fisso ma sorride a tutti. L’ho visto nel parco dietro alla casa gialla erano mesi che non tornava. Lucio è stato l’inizio della mia cura. Erano giorni di pioggia e di rientro dalle vacanze, tra assenza e noia sui visi della gente. Il viale tornava ad essere dimenticanza per me e Lucio fu un nuovo incontro. Il suo sorriso. Aveva lavorato tutta estate come: traslocatore, giardiniere, badante per la vecchia zia e nonno tre giorni alla settimana. Il 28 luglio è stato mezza giornata al mare e racconta di averlo toccato dopo avergli parlato. Io mi sento misero, anzi lo sono. Ho passato tre settimane davanti al mare ho visto albe e tramonti assieme alla famiglia. Non sono riuscito a diventare interlocutore del mare e del cielo delle nuvole e delle piante delle rocce. (…) Io ho avuto tempo il mio occhio è caduto nell’ego Da domani vivrò nella pienezza delle distanze brevi.
Carne e sangue non è soltanto una raccolta di frammenti, di storie, immagini ed evocazioni. Neppure è un libro usuale, perché effettivamente è davvero “carne e sangue”, non solo carta e inchiostro. Sono come sostanza fisica le immagini, le parole, i colori, i suoni, i brandelli di storie spersi tra le pagine. Non hanno sempre tra loro un filo narrativo, come in tutta la vera poesia non c’è un’unica storia alle spalle se non quella di un “io” reso collettivo. Situazioni inquietanti al limite dell’abrasivo e un passato che ritorna sono forse l’unico fil rouge di un intento comunicativo sostenuto a volte finanche da un sentore di elegia, nel quale si diffonde l’eco di un rimpianto che richiama alla mente qualcosa delle atmosfere contenute nel pasoliniano Pianto della scavatrice:
Oggi toglierò le strade parallele da questo lungo viale. I capillari non hanno linfa ma parvenze dentro al confine di casa dove l’ordine sembra essere l’unico protagonista. Mi chiedo dove siano tutti io che lavoro facendo i turni non incontro nessuno se non brevi apparizioni che neanche un giovane topo sarebbe capace. Resta così questo luogo ai confini: silenzioso e composto vestito di nuovo un cadavere prima dell’ultimo saluto. I vecchi sono i veri dipendenti del giorno sembra che marchino le ore di uscita ognuno seduto al proprio posto come impiegati del parco non raccontano più il passato ma l’abbandono sui loro visi. Sul viale cerco la miniatura non la lunghezza ma la profondità. Il dopo è sotto lo stelo di un fiore l’uomo è altrove.
La sostanza fisica dei luoghi e delle storie si fa spazio nei versi fino a incontrare una sorta di declinazione materica degli stati d’animo, e produce una fusione di natura alchemica tra la memoria e l’introspezione, perché sono quasi sempre gli stati d’animo evocati dal reagente della memoria a svolgere il filo del discorso poetico e a tracciare profili antropologici che Manicardi attribuisce alla condizione postmoderna, partendo da se stesso e dalla memoria di sé:
La ghiaia era il nostro gioco secondario alla palla perduta o la corda che ci tagliava le mani. Il cortile: la spiaggia immaginaria. Non crescevano gigli di mare sotto il cavalcavia ma ciuffi d’erba nati dall’incuria L’olio dei motori era la nota scura nel marciapiede. Ricordo la casa scrostata da intonaco e le dita che entravano come fosse carne viva. Mia nonna alla finestra, abitava al secondo piano. Era lento il nostro salire prima che finisse tutto con “andatevi a lavare”.
L’alchimia che Manicardi è capace di produrre con la parola poetica a sua volta riesce a generare testimonianza di un vissuto paradossalmente ancora da vivere e questa testimonianza, che si muove appunto tra il paradosso e la parola, si orienta alla decostruzione dei significati dell’esistere. Lo slancio vitalistico, la prospettiva esistenziale prescinde dal senso: si propone e si nega al contempo divenendo traccia oltre di sé, verso il vuoto di un’alterità inesistente:
Cara Martina non c’è più linea d’aria è ora di sforzare gli occhi e toccare ogni singola parola che ci strappa il sonno anche se è il giorno il più scoperto è il giorno che torna giorno e non lo sa.
La vita è ciò che accade adesso, sembrano dire i versi di Carne e sangue, e non c’è salvezza alcuna fuori dal vissuto quotidiano e dal suo carico di esperienze (grandi o piccole, positive o negative) come unico mondo possibile: nessun iperuranio, nessun affidarsi fideistico a un altro da sé. Una immanenza resa in termini semiotici nel verso dal prevalere del gioco assoluto del significante, del racconto neorealista e disincantato. Nessuna concessione a codici comunicativi ermetici o simbolisti, in una versificazione che però d’altro canto non si conforma alla omologazione postmoderna della cancellazione totale del significato, soltanto lo sposta da paradigmi astratti o metafisici del linguaggio verso l’esplorazione dei possibili significati racchiusi in un unico attimo del quotidiano reale, il “qui e ora” di cui giustamente parla Nicola Vacca nella prefazione al volume. La semantica degli enunciati poetici (e delle visioni evocate) fonda su una scrittura quasi prosimetrica, nella quale il ritmo e le sonorità non sono date tanto dalla pulsione lirica che è estremamente sorvegliata quanto dalla sobrietà dei costrutti sintattici e dalla nitidezza dei sintagmi, dalla univocità delle unità dialogiche, dallo slancio della paratassi, insomma dalla morfologia di un racconto limpido e deprivato da soverchi condizionamenti sia emotivi che emozionali. Ed è nella scrittura, sembra dirci Manicardi, che si compie fino in fondo il destino identitario del poeta:
Scrivo per sbagliare fino in fondo per ricordarmi che i dolori alle ossa sono le virgole che non ho saputo finire. Scrivo per tacere gli assilli che mi attraversano i giorni e per dare un nome alle sconfitte. Sono poco più di un invisibile meno di un livello quadro quell’io di sempre per sempre. Scrivo perché le piante non possono farlo e nemmeno il mio cane che pensa di me che sia io un cane guardandomi schifato.
Quella di Manicardi è dunque una poetica dei vissuti possibili, ancorché denegati dal procedere dominante della Storia e resi invisibili dal linguaggio dei poteri; è una poesia non tanto degli ultimi quanto dei vulnerabili, laddove ci spiega che l’esistere è esso stesso un vulnus, una ferita non ben cicatrizzata che deve essere riaperta dai versi per far sgorgare nuovamente il sangue dalla carne, sfiorando l’idea lacaniana che sia l’esistenza stessa del linguaggio a infliggere una ferita necessaria alla vita immediata. Ma è al contempo una poesia del dubbio, come spiegano i “non so” sparsi nel periodare e che riportano alla ben nota riflessione di Bertrand Russell: il problema dell’umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi, laddove la parola “intelligenti” richiama il senso dell’intelligereo della canoscenza dantesca che anima questo libro. Ecco, la scrittura di Manicardi in Carne e sangue è in definitiva il peregrinare di un intelligere poetico tra la corporeità e il mondo, tra il linguaggio e l’identità.
Amelia Rosselli affermava che «scrivere è chiedersi come è fatto il mondo» – il che è assolutamente vero – e poi ci sono autori che vanno anche oltre: scrivono per «chiedersi come funziona il mondo», ovvero sono convinti che lo scrittore abbia il dovere di assumersi una certa responsabilità civile e di intrecciare l’etica al procedere della propria creatività. In realtà non sono molti, questi autori, perché la gran parte di quelli noti e meno noti è preoccupata piuttosto di costruirsi una carriera letteraria coltivando il proprio “orticello” editoriale e di pubblico, grande o piccolo che sia, dedita più all’immagine che alla sostanza dell’arte, perseguendo il solo fine di ampliare il proprio spazio di visibilità, a qualunque costo. Di conseguenza nella narrativa e in misura lievemente minore nella poesia l’omologazione regna sovrana: l’intrattenimento prevale sulla letteratura e sembra che i più scrivano più o meno sempre le stesse cose, ciascuno all’interno della sua nicchia e sottomesso alla moda del momento. Fortunatamente ci sono le eccezioni e tra queste spicca il pugliese Bartolomeo Smaldone (Altamura, 22 gennaio1972), che è senza dubbio una delle voci più interessanti e originali della poesia italiana contemporanea. Un autore tra quei pochi che identificano nell’arte della scrittura un irripetibile spazio etico di conoscenza.Anche per questo ogni suo libro è diverso dagli altri, è un atto a sé, che si relaziona ai precedenti e ai successivi soltanto nella qualità di tappa, di pietra miliare in un percorso scandito dalla scrittura.
Smaldone infatti dimostra di aver intrapreso un’anabasi, un cammino impervio e faticoso che innalza l’osservazione dai contorni stereotipati dell’esistenza (quali vengono disegnati dal conformismo) verso l’interno delle coscienze, dall’apparenza verso la sostanza, dalla superficie delle cose e dei comportamenti umani sempre più verso la profondità, l’intima essenza, l’anima mundi. E per farlo assume la disobbedienza all’omologazione civile e culturale quale lemma della ricerca poetica. Un cammino impervio perché, rifiutando appunto l’omologazione, gli occorre raggiungere con la sola forza della parola le ragguardevoli altezze letterarie alle quali ambisce, faticoso perché è un impegno che richiede studio e molta applicazione. Insomma, un approccio che incontra pienamente il convincimento più volte espresso in queste pagine, ovvero che l’arte, anche l’arte della scrittura, poggi su tre pilastri: lo studio, l’applicazione e il talento. Talento che Smaldone dimostra indiscutibilmente di possedere.
La costante di questo percorso, di questa anabasi, è data da una parola poetica fortemente orientata all’esplorazione lessicale e nel contempo al recupero di valori stilistici propri del Novecento, laddove Smaldone sembra essere tra quegli autori convinti, a buona ragione, che per quanto riguarda la vera letteratura (non quindi l’intrattenimento) il secolo sia terminato soltanto cronologicamente, che non abbia ancora esaurito il proprio portato e che nei fatti durerà ancora a lungo. Però di Pasolini o Ungaretti o Pavese, per esempio, resta l’unicità, con la quale non hanno nulla a che vedere le scimmiottature degli epigoni, ben lontani da quella cifra. Per Smaldone, che è davvero una voce autonoma e originale, non si tratta comunque di un “riflusso” o di una restaurazione, né di un ripensamento della componente meramente stilistica, bensì di un vero e proprio atto di disobbedienza verso un contesto intellettuale di replicanti, asfittico e ripetitivo, che celebra se stesso ma affoga nella liquidità insensata di una società povera di valori e di significati, sovraccarica di falsi miti.
D’altro canto il poeta altamurano non si limita all’esplorazione del Novecento, dal quale trae soprattutto l’eco di un modo pascoliano di concepire la poesia: da uomo di studio qual è,risale la corrente del tempo attraversando nei versi i significati hegeliani della fenomenologia dello spirito, ritrova il senso poetico di un Foscolo, di un Leopardi, e poi indietro a incontrare Dante e indietro ancora fino alla classicità della tragedia e del mito. Ritrova temi antichi, o meglio eterni, che attraversano l’oggi con la stessa forza del passato. Per questa ragione qui non si tratta di archeologia dello stile né dei costrutti letterari, si tratta ben più distintamente di ricondurre la versificazione dentro una linea evolutiva che restituisca valore alle origini. Il solco di una tradizione che nella creatività di Smaldone diventa anche un luogo di ripensamento del linguaggio in termini semiotici, di attenta ricognizione di lessemi, di elementi sintagmici e di motivi ritmici e sonori, da reinterpretare dentro una scrittura che ha il coraggio di gridare forte e chiaro che la poesia è un codice comunicativo altissimo e non può essere svilita in una prosa accidentata, dove basta l’andare casualmente a capo per fare di ciascuno un poeta, come (sporadicamente) rilevano con ironia gli sferzanti luoghi comuni della (poca) critica letteraria non addomesticata dalle esigenze editoriali.
Ne sortisce una versificazione meditata, dove l’atto creativo, la poiesis, procede sulla pagina con una scansione perentoria, ritmata, con una gamma di suoni che va dalla compostezza quasi ieratica all’urgenza dell’aforisma o all’ironia dell’epigramma, e dove significato e significante assumono i profili di elementi ermeneutici. Di rilievo la perfetta rispondenza del tono poetico alla costruzione sintattica, rispondenza che si traduce nell’eleganza dello stile. Tono poetico, oltretutto, che si apre alla polifonia anche all’interno di una stessa silloge, quando la lirica si alterna all’elegia, al prosimetro, alla narrazione visionaria, alla metafisica. Sul piano dei contenuti, le aree tematiche includono il dato della storia e quello dell’esperienza, il portato atavico di un Sud irrisolto e la prospettiva di un mondo in divenire, il significato dei sentimenti e il senso identitario, insomma una pluralità di temi e suggestioni quale difficilmente si può rinvenire in un unico autore. Tantomeno è facile incontrare una ricchezza espressiva – formale e sostanziale – i cui elementi sono messi in correlazione tra loro in modo tanto compiuto. Tutto questo fa pensare alla grande lezione di Bodini, con il quale Smaldone ha diverse cose in comune, come lo sguardo attento alla Spagna oppure la lucida irregolarità verso il sistema: come Bodini sembra avvertire fortemente il sangue antico che scorre nelle vene del Sud e che rimanda a una storia millenaria, contraddittoria, laddove l’interfaccia tra il Mezzogiorno e l’altrove è stata sempre rappresentata da un sistema di sottogoverno, gattopardesco, occhiuto; ma al di qua delle tracce evidenti della Storia si è generata una cultura eretica, irregolare, visionaria e cosmopolita, cresciuta in una terra di mezzo del pensiero e dell’essere dove regna l’antitesi tra la sudditanza e la disobbedienza, il mito e il quotidiano, la Storia e il sogno.
In termini di pubblicazioni prodotte, il percorso di Smaldone si articola fin qui nelle sillogi Del vento e del rovescio della medaglia (2003), Gente (2009), Atomi (2011), Poesia semplice (2014), La contadina furba, ovvero il sassolino ridotto in polvere che trovò dimora in una scarpa fuori moda (2016), Sine die (2017), Alta sui gorghi – miscellanea di critica e poesia – dieci poesie inedite (2017), Sottrazioni (2018), Disobbedienza (2018), Viene una seconda volta il cane fulvo (2019), Per ischerzo (2020), La cura, poesie composte su fotografie di Oscar Ramirez Dolcet (2021), Ontologia erotica (2021), Dels calçots al 3d10 La meva Catalunya (2022), nei romanzi Se i tuoi occhi un giorno (2012) e Sub noctem (2016), in una raccolta di filastrocche dal titolo Sotto la panca – filastrocche per tutti, o quasi – (2016) e infine in una raccolta di racconti intitolata ABS – apparente buona salute –, (2017). Un percorso arricchito, nel 2020, dal Premio Montale Fuori di Casa sezione Mediterraneo per la Poesia.
Lungo tutto questo andare della scrittura, il valore che Smaldone riconosce alla tradizione non deve trarre in inganno, perché anzi la sua poesia è una costante sperimentazione, uno spaziare sui significati logici (nel senso di incarnati nel logos, al tempo stesso parola e pensiero) e ontologici, uno scomporre e ricomporre una metrica rigorosa sebbene slegata dal numero delle sillabe, una ricerca del verso pieno, sonoro e portatore di significato. Premesse stilistiche dalle quali dipana l’osservazione poetica:
Un papavero, di fianco la rotaia brunita,
per esempioesordisce, con un’immagine crepuscolare che sembra quasi un’istantanea, nel primo verso di un componimento della raccolta intitolata non a caso “Disobbedienza”, per poi svettare con la visione
s’erge d’una poetica essenziale. Trabalza appena, se il vento sbuffa, e si raddrizza fiero, riprende il suo vigore. Se pure appaia d’esile fattura, fa eco alla natura intera il brulicare rosso della sua gorgiera. E io che ho scollinato e risalito il tempo, io, voce d’una genìa futura, m’involo, come farebbe un minuto insetto, sul mio caduco fiore e lì ristò, romito e universale, a raccontare il breve viaggio della progenie umana.
Qui come altrove la sua poetica sembra non solo rifuggire, ma addirittura contrastare la suggestione di aree semantiche casuali, indeterminate, ambigue, insomma il disordine espressivo. Tra le caratteristiche strutturali che conferiscono forte personalità alla sua scrittura c’è invece l’uso sapiente della metafora, le calibrate costruzioni sinestesiche, l’originale e molto contenuto inserimento dei segni d’interpunzione o la loro omissione.Finanche l’anafora “io” qui è limata fino all’essenziale e non ingombra la visione. Di questo largo ed efficace strumentario semiotico è conferma, per esempio, la poesia Il delfino, dalla raccolta “Del vento e del rovescio della medaglia”:
Ti amo perché hai l’intelligenza di un delfino e una precisa coscienza sociale per la tua struttura morale per il tuo aspetto distinto per il tuo modo di argomentare. Ti amo per la tua discrezione per la tua collocazione nel mondo senza dubbio per la generosità del tuo seno principalmente perché non mi ami ancora. Per questo ti amo e farnetico.
oppure la poesia La piana delle arance, dalla raccolta “Gente”, dove l’anafora e la paratassi si sposano a evocativi surrealisti come nella lezione di Éluard:
Ho visto tuo padre salire la montagna con il passo paziente del cacciatore esperto su per il sentiero che attraversa gli ulivi fino alla cima del Belvedere L’ho visto stringerti la mano coprirti i capelli con il suo cappotto perché la pioggia non ti bagnasse e il freddo non ti fosse ostile Suonava per te il battere d’ali del falco solitario sulla piana delle arance L’estate impetuosa ti riempì le tasche di spighe di grano e di pesche rosse Ho visto tuo padre seduto su un masso e tu al suo fianco a interrogare un fiore e dal pontile ho scorto il pesce e una moneta in fondo al fiume Ho visto tuo padre salire la montagna la neve cadere sulle ringhiere arrugginite ho visto i tuoi occhi riflessi nel pozzo cercare i suoi occhi tra i segreti dell’acqua Suonava per te il frusciare dei rami per te suonavano l’arpa e il violino Raccolsi la moneta dal fondo del fiume raccolsi i tuoi occhi dal profondo del pozzo
Una versificazione, quindi, estremamente accurata e nitidamente orientata. D’altronde lo stesso autore in un suo articolo spiega che:Se è vero che ogni poesia è la parte ultima di un processo cognitivo, esplorativo e di elaborazione di una materia alla quale è fortemente connaturata l’aura evocativa, altrettanto vero è che nella sua elementare intuizione da parte del lettore essa è essenzialmente la codificazione linguistica di quel processo che si genera nella mente e nell’animo del poeta; codificazione che, proprio in quanto sistemazione e ordinamento di tutti i fattori che contribuiscono alla definizione dell’atto creativo, racchiude in sé delle informazioni che potrebbero passare da un io interiore ad un altro, dalla condizione ontologica del poeta a quella del lettore, dalla sfera cognitiva del primo alla sfera cognitiva del secondo.Il che non nega la consapevolezza della irriconoscibilità della Poesia nel mondo, ma la converte in probabilità, nell’assolvimento di quel dovere/bisogno etico al quale si faceva riferimento in esordio a queste note. Qui si realizza la sintesi tra l’io storico e l’io antropologico che è propria della poesia contemporanea e che pone Smaldone quale contemporaneo tra i contemporanei. C’è un componimento della raccolta “Atomi” che riassume un po’ di tutte le considerazioni sin qui svolte, compresa quest’ultima, ed è tra le poesie più belle e significative dell’autore (la più bella a parere di chi scrive). Parole di visione e di testimonianza combinate con rigore metrico e sostanza emotiva. Una poesia di respiro maieutico e di grande ricchezza stilistica che racchiude in sé toni lirici e sinestesia, metafora e passaggi colloquiali, anafora e decostruzione del senso, immediatezza espressionista e surrealismo onirico. Si intitola La piccola venne al mondo e il mondo ne fu lieto:
Che riccioli belli ti porti alla nuca trucioli neri che raccolgono l’aria ci passi la spazzola e il sole li asciuga il caldo di un sole di plastilina Lo sanno i poeti quando sto per partire con loro divido i verbi e le botte tu sola sai quando sto per tornare con te divido la soglia dei sogni Stattene libera, nella musica e nel corpo nel cibo tra i denti, nel naso che gocciola Stattene libera nei no che dirai nelle promesse che non potrai mantenere nelle febbri estive, nelle porte che si chiuderanno negli incontri felici nei supermercati Devi assaporarla la libertà devi pretenderla come un battesimo laico per tutte le creature che potrai immaginare nello sterminato regno della tua fantasia Il giorno che ti rivedrò e tu sarai grande mi torneranno in mente le parole della maliarda i suoi tre tocchi sulla tua fronte i suoi occhi a interrogare la bacinella di magnolia e l’acqua e l’olio a bagnare la strada per mandar via la malasorte Capirò che l’unica cosa che ti avrà affascinato sarà stato il bisogno di essere altrove per non perderti nulla di ogni prossimo viaggio
La parola poetica di Smaldone, però, a volte spazia così tanto da porre all’autore stesso e al lettore interrogativi in bilico tra elementi che la filosofia ricondurrebbe a profili deterministici o meccanicistici. Vero è che tra parola filosofica e parola poetica non può esserci un rapporto subordinato bensì di reciproca conoscenza, ed è su questo che l’autore lavora nel percorso di comprensione della realtà, ponendosi su punti di vista di volta in volta differenti, senza alcun pregiudizio. La ricerca si orienta di conseguenza verso una scrittura che attraverso il filtro poetico si faccia pensiero senza soluzione di continuità, sino a dischiudere orizzonti inesplorati, a mostrare le cose in una nuova luce come fosse una sfida: ripensare tracce inedite della storia del pensiero. Come accade nei versi del componimento Le cose, dalla raccolta “Poesia semplice”:
Le cose accadono, macchiano stanno in testa e in pancia si mettono tra il pari e il dispari a portare buona e cattiva novella Le cose onorano e tolgono onore ai margini della comprensione e della morale comune Rispondono “sia fatta la tua volontà” Le cose hanno il senso della liturgia della periferia della città Creano disagio e attesa ci fanno dimentichi del corpo
versi fin qui dal tono icastico, poi un’accelerazione verticale verso l’allegoria
dei lacci e dell’annuire Le vene, tutte, lo sanno Le cose vanno dov’è il sangue e dove il sangue si prende
A proposito di allegoria, ci sono poi passaggi, nell’anabasi di Smaldone, dai quali la pulsione allegorica emerge insieme a una vitalità dai contorni sensuali, a un’energia frizzante. Frammenti, suggestioni, voci dell’inconscio, visioni suscitate dalla molteplicità dei punti d’osservazione che l’autore sceglie lungo il cammino. Varie declinazioni di una creatività che riveste l’ossimoro di essere compostamente irrequieta. Di seguito ne proponiamo qualcuna.
Le escursioni primaverili offrono infiniti spunti, dalla raccolta “La contadina furba, ovvero il sassolino ridotto in polvere che trovò dimora in una scarpa fuori moda”:
Mostrandomi il piede per riscattare il corpo intero hai detto ‹‹guardami›› ma eri nuda solo a metà Allora ho scritto per intuire il resto quello nascosto dall’improvvido drappeggio Quale sarà il nostro prossimo gioco? Mi aspetterai dopo il tornante nascosta dietro un nespolo?
dal volume “Alta sui gorghi, miscellanea di critica e poesia”:
Se l’intera foce del Belice fosse per intero un lavacro, dal pianoro ti verrei incontro, annaspando e barbugliando per il caldo. Verrei per avere un’abluzione, un ristoro, un’erezione; per vederti mulinare con le braccia dentro il mare. Frinirebbe una cicala. Un ricciolo sabbioso si alzerebbe per condurti a me, arreso all’ombra fiacca di un giunco, pronto a prendermi l’acqua che saprai darmi.
dalla raccolta “Sottrazioni”: Ruzzolo, trottolo, lumeggio, escogito il sintagma: rimettimi ogni ùzzolo.
Nei secoli dei secoli, dalla raccolta “Per ischerzo”:
«Dio non esiste!» «Io Dio l’ho visto!» «Allora nell’occhio lo tieni nascosto!»
dalla silloge “Ontologia erotica”:
Mi offre la vita il pretesto di dire deciso all’inchiostro: ‹‹Le spalle ti volto, per Cristo! Mi dono a una mina appuntita››. E da una matita, splendore, da questa mistura d’odore d’argilla e grafite, le mie più impudiche parole scolpite sembrano stare sul fianco illibato del foglio. In questo rigoglio di lingua sontuosa, in quest’amorosa distesa di lemmi, da un bozzolo sembri racchiusa, distinta dal resto del mondo per l’indole tua a volare. Godere e lasciarsi disfare dall’aura potente di un verso, rivolgere incredulo il corpo al rito del suo copulare e lì riscoprirsi crisalide in ogni vocale e in ogni sillaba farsi succinta, sospinta infine dal fallo del perifrasare. Allora, compiuto il prodigio, divieni farfalla regina: discendi e senza un indugio su me ti vieni a posare.
Altra caratteristica originale – forse la più sorprendente – della poesia di Smaldone è la capacità di proiettare e gestire la luce all’interno delle visioni evocate dai versi. Ci sono componimenti che sembrano richiamare la penombra di candele o di albe e tramonti, altri dove la scena sembra immersa in uno sfolgorante bagno di sole, altri ancora dove “la luce pare di carne cruda” per dirla con Bodini, e poi quelli dove il lucore e l’ombra giocano nel chiaroscuro di immagini al tempo stesso metafisiche e crepuscolari, nello sfondo di una natura impassibile:
Lieve il ginepro vela di livida ombra la cala, e sui calchi d’arena dispensa, e ogni tanto sui gechi, la sua sonnolenta sapienza. Si adunano piccoli amanti lontani dai lembi del sole, già prossimi ai cupi canali e ai canneti, intenti a confondersi quieti tra i fissi graniti, tra i solitari querceti. Qualcuno siede su un’asse, passa la mano sul dorso di un cane che ama la vita dei pini, ne sente l’odore senza conoscerne il nome. E passi anche tu in un chiaro silenzio di morte e di estate; passa la pronuba notte sulle misere strade sterrate.
Le due più recenti esperienze creative dell’autore altamurano si incrociano con la Spagna: la prima è il volume “La cura” (La Banya edicions , 2021) che racchiude fotografie del catalano Oscar Ramirez Dolcet e poesie di Bartolomeo Smaldone, libro che segna la conferma di una forte proiezione del poeta alla visione complessa che procede per immagini e parole, esattamente come si rileva nel componimento breve La corrosione:
Contiene una bellezza dolorosa il fiore che sfiorisce lentamente: era presente, adesso non è niente se non il tempo che in lui riposa.
La seconda rientra in un progetto articolato che accanto alla pubblicazione del libro “Dels calçots al 3d10 La meva Catalunya”, (La Banya edicions, 2022) ha visto un gemellaggio tra l’Italia e la Catalogna promosso dall’Associazione Culturale Spiragli di cui Smaldone è presidente. Della silloge fa parte la poesia Lo stormo (a Blanca Ferrer Piñol):
Da un antro del cielo ottobrino balenava sul cedro in giardino l’astro lontano, e quel lustro inatteso sul fusto,
un incipit di impronta pascoliana, al quale segue il dilagare di tutti i paradigmi espressivi, delle costruzioni sintattiche e delle straordinarie contaminazioni che caratterizzano la poetica dell’autore, quasi a suffragare ogni considerazione svolta in queste note; sono versi che comprovano il valore del lungo lavoro compiuto sin qui da un poeta vero, contemporaneo e intellettualmente onesto, disobbediente al conformismo e devoto senza riserve solo alla scrittura
sui rami rossastri, rivelava il richiamo maestoso del corpo celeste, ci mostrava sul pallido giallo del frutto il fitto spazio che attornia le stelle. Blanca, ricordi? Fioriva allora il viburno nella tepida bolla notturna, si udivano i trilli dei grilli come cantassero a luglio; e le ciglia e le palpebre e gli occhi di meraviglia ci tratteggiavano i volti, e noialtri, poc’anzi loquaci e capaci di arguzie, velati di grazia ora stavamo in silenzio. E accadde. Accadde che un sincrono volo di uccelli scrosciasse squassando la volta, tracciando fulmineo la rotta che all’Ebro l’avrebbe condotto tra i giunchi marini, tra le dune convesse, inseguendo la sorte interdetta a noi piccoli, piccoli umani.
Appare evidente, in definitiva, che l’anabasi di Smaldone abbia già raggiunto un traguardo importante: la maturità della scrittura. Nei suoi versi il peso di ogni sintagma è ponderato, la costruzione sintattica è calibrata, il tono poetico è coerente al tema trattato e ogni parola è proiettata verso la perfezione. La versificazione è ricca di assonanze e di ritmi e sostiene una struttura semiotica aperta alla visione del lettore, che “entra” nella sua reazione interpretativa. I significati ontologici poggiano su un’impalcatura espressiva solida che rifugge dal superfluo e tende a raggiungere una forma ideale. Partendo da queste premesse, si può affermare che sarebbe oggi opportuna un’opera antologica che racchiuda in un unico volume la testimonianza articolata del percorso fin qui compiuto. Non certo per cristallizzarlo, perché l’energia creativa è tanto forte da far comprendere che il cammino non si arresterà, piuttosto per offrire al panorama editoriale un’opera densa di significati e contenuti, di vera poesia, quale strumento importante di lettura e riflessione.
Illuminare la vita: questo è ciò che la Poesia fa, da sempre. Ma nel mondo attuale potrebbe addirittura svolgere una funzione salvifica. Come? Ricordandoci che la bellezza dell’essere umano sta tutta proprio nella fragilità che ci caratterizza e nella caducità dell’esistenza terrena, a patto di mantenerci sempre connessi con la nostra anima. Sono queste sue stesse parole a spiegare il senso dell’esordio poetico di Lucia De Matteis, scrittrice pugliese che vive e lavora in Lombardia come docente di lettere, autrice della silloge Tra pelle e cielo (Bonfirraro, 2022), dove i versi appunto si aprono come un varco nella linea di confine che separa la quotidianità dalla trascendenza.Segnatamente, dentro le vicende terrene, a sua volta separa il buio che avvolge determinati difficili momenti dalla luce, lo scuro dal chiaro. Scuro e Chiaro sono infatti non a caso i titoli delle due sezioni di cui si compone la raccolta.
Come a volte accade, e d’altronde è accaduto per molti importanti poeti, per De Matteis è stato infatti un momento molto doloroso a determinare l’autrice alla versificazione: la sofferenza per la perdita di una persona assai cara. Da qui parte un percorso di rinascita e redenzione dal dolore accettato che si tramuta in atto poietico, creativo. Un percorso in salita, reso urgente dalla profonda sensibilità della persona (anima azzurra definisce se stessa, appropriatamente) in uno al proprio istinto vitale di donna del Sud, retaggio della natia Gallipoli. Un itinerario interiore accompagnato dal valore salvifico della scrittura, che muove dalla consapevolezza del caos indistinto dal quale la parola stessa risorge:
Mi si è impigliata la parola / tra i fili ingarbugliati / che imprigionano il cuore. / Sillabe appena nate / mai congiuntesi a far pensiero / giacciono sbrindellate / agonizzano / su punte di metallo / dietro il portone del sé dagli altri / chiuso / a doppia mandata.
Una volta imboccato il sentiero della poesia, il dolore trasmuterà, cederà il posto alla memoria – luogo privilegiato della scrittura – che saprà dilagare nel verso sino al compimento di una catarsi necessaria:
C’è una casa / dove io mi affacciavo la sera / e potevo parlare con le stelle / e loro mi raccontavano, / pettegole, / dell’amplesso della luna col buio della notte. / C’è una casa / con la terrazza al posto del tetto / dove io mi sdraiavo / a vedere i gabbiani volteggiare, / e tendevo la mano a catturare / ora un’ala d’uccello, ora un lembo di cielo. / C’è una casa / dai muri bianco calce / che non ingialliscono mai, né mai si scrostano / anche se la salsedine li divora e li arroventa il sole. / E infine c’è una casa / dove io ero felice / felice di quella casa / perché avevo il mare / e il sole / e il cielo / e i gabbiani / e le stelle pettegole / e i muri bianco calce / e una vita davanti / per rimpiangerli.
La poesia di De Matteis, e per essa l’autrice, sembra credere all’esistenza di energie, negative e positive, che emanano dallo spirito e in esso ritornano, e vi si fondono dopo aver attraversato l’esperienza. E che lo spirito sia a sua volta un fattore invisibile che muove la realtà. Da qui, nel verso si dipana una fitta e originale partitura di richiami, variazioni e concatenazioni armoniche di ritmi e di suoni, una particolare espressività che genera una scrittura ricca, portatrice di una pluralità di visioni articolate che oltrepassano i significati percepibili razionalmente. Una poesia dell’anima, dunque. Dello spirito, o meglio dell’energia incontenibile dello spirito che era forse inespressa, costretta dalla quotidianità, ma che alla fine per il dolore ha intonato parole e versi, come fosse riuscita a spezzare le sbarre.
Lungo il cammino, la scrittura trova spesso una perfetta rispondenza al desiderio interiore di una elevazione di sentore quasi contemplativo, che sembra respirare l’eco di Baudelaire o Mallarmé, ed è qui che il linguaggio e il tono poetico a volte assumono spinte di impronta neoclassica: S’imporpora l’azzurro lapislazzulo / come guance puerili vergognose / al sole stanco che / volge all’occaso. / Sprazzi d’oro e vermiglio ardono l’aria. / Spettacolo fastoso, quel che guardo! / Vorrei che non calasse mai sipario. / Ma la vita non proroga splendore… / La sera scioglie già le nere chiome.Mentre altre volte vergano sulla pagina segni icastici, visioni impressioniste: Così la voce diverrà risacca / di un mare troppo profondo / per essere compreso. / Rimarrà lì, sulla battigia, / nascosta nel silenzio / di una conchiglia pietosa. / E mai nessuno, più, / l’ascolterà.Oppure aneliti vitali di un nitore espressionista e al tempo stesso quasi mistico: I sorrisi del cielo, terseggiando, / rilucono di fresca primavera. / Brilla il sole nei verdi occhi dei prati / strabuzzati su nascente flora. / Dolci gli effluvi di novella vita / riempiono d’ incanto l’aria e il cuore.
Tuttavia per l’autrice non è solo l’elevazione personale il movente della scrittura poetica, ma anche l’ermeneutica dello spirito che la orienta fortemente verso tentativi di comprensione del mondo, attraverso l’osservazione di profili dell’esistenza che spaziano dalla condizione femminile ( per es. dedica un componimento alle donne vittime di violenza) al rapporto con la natura, dagli affetti familiari alla religiosità, dall’amore al mistero della morte. Fino a osare, e trovare, l’autoriflessione maieutica: Cosa farei se un giorno mi dicessero: / «Tempo scaduto! Devi proprio andare?». / Tante volte oramai me lo son chiesto. / La risposta la so: correrei in strada / a catturar bellezza da portare / racchiusa in occhi e cuore ovunque vada. / E poi, chissà, quelli dall’altra parte / sorrideranno del mio grande amore / per cielo e mare e tutta questa vita / che io stupita ammiro, opera d’arte.
Quella dell’autrice, in definitiva, è una testimonianza poetica che accompagna il lettore verso la ricerca di un significato ulteriore dell’esistere, ma partendo sempre e comunque dalla scrittura. Non ha l’utopistica ambizione di trovare risposte universali, ma dal particolare induce a riflessioni che molto spesso attendevano solo di essere rivelate. La parola muove sì dall’elemento biografico ma prontamente si innalza a temperature maggiori della semplice narrazione, diventa un atto imprescindibile per ampliare lo sguardo troppo spesso univoco o convenzionale che si ha sulle cose del mondo. Scardina luoghi comuni, decostruisce il senso ordinario della realtà verso una visione differente che poggia sulla centralità dell’anima come risposta alla caducità della condizione umana. La parola poetica come alternativa alla vacuità dell’effimero, il segno sulla pagina bianca che scalfisce in modo indelebile l’animo del lettore.
“L’ARTE DELLE DONNE: bellezza e rinascita” è il titolo della mostra che nasce da un’idea di Cristina Maremonti, presidente del Centro Italiano Femminile Provinciale di Bari. Una mostra dedicata alle donne, ma non solo, dove la creatività e la solidarietà femminile saranno protagoniste di un bellissimo progetto, realizzato grazie alla collaborazione con due persone straordinarie: Maria Pierno, Maestro d’arte, e Rossella Mazzotta, fotografa. L’intero progetto mira a supportare, attraverso l’arte e laboratori dedicati, tutte quelle donne che vivono situazioni difficili: di malattia, di violenza, di discriminazione o di disagio psico-sociale per aiutarle a rinascere e a riscoprire la bellezza della vita.
Le fotografie della sezione “Obiettivo Donna” e le sculture dell’esposizione “Tessere Trame” saranno accolte, grazie alla disponibilità dell’Associazione “Mar di Levante”, in un posto incantevole, quello del Faro del Molo Borbonico nel Porto di Bari, e visibili al pubblico dal 22 al 29 ottobre 2022. La mostra fotografica è promossa dalla Biblioteca del Consiglio regionale della Puglia e l’evento sarà realizzato grazie al contributo della Casa Editrice “Gelso Rosso” di Bari. Vernissage sabato 22 alle 17.00 (info 339/5852312). Le poesie di Letizia Cobaltini faranno da cornice alla splendida mostra.
Cercare di mantenere sempre accesa una luce – è il messaggio che con questa iniziativa Cristina Maremonti vuole indirizzare a tutte le donne – come fosse un faro nella notte, anche nei momenti più bui della nostra vita.
Un messaggio che la qualità delle opere esposte e la cura profusa nell’allestimento arricchiscono di valori e significati ontologici.
La relazione tra l’individuo e il tempo è sempre stata complessa, quando non addirittura problematica. La psicoanalisi considera l’accettazione del trascorrere del tempo come indice di maturità psichica, che si sostanzia nella rinuncia al controllo del tempo: tanto il ritorno al passato, quanto il controllo del futuro sono impossibili.Sigmund Freud individua l’atemporalità come uno degli elementi essenziali che organizzano l’inconscio, al quale si contrappone la linearità del tempo che caratterizza il principio di realtà. La letteratura ha spesso esplorato questo assunto, un esempio per tutti Italo Svevo che nel romanzo di impostazione fortemente psicoanalitica La coscienza di Zeno svincola il senso del tempo dal succedersi cronologico degli accadimenti e lo mette piuttosto in relazione al flusso di coscienza del protagonista, al divenire della sua psiche. “Il tempo – dice Zeno – non è quella cosa impensabile che non si arresta mai . Da me solo da me ritorna”. Il tempo, quindi, non è figurabile come una linea ininterrotta, ma come una spirale, un po’ a modello del “gomitolo di Bergson”.
Un assunto nel quale sembrano rispecchiarsi i componimenti della silloge Clessidra (Wip Edizioni, 2020), seconda raccolta poetica pubblicata dalla scrittrice barese Adriana Ostuni. La stessa autrice, nell’introduzione, scrive che: Nella clessidra, a un certo punto, la sabbia si deposita tutta. L’ampolla superiore si svuota e le alternative sono due: o si lasciano le cose immobili nel loro stato di inerzia, oppure si compie un gesto che contiene un significato altamente simbolico. Si capovolge la clessidra e si comincia daccapo. Il tempo ora non è più una linea retta ma diviene un cerchio, un ciclico fluire, un cadere per un rialzarsi, un alternarsi di azioni simili e contrarie in continuo movimento.E, partendo da questo argomentare chiarissimo, poi ella stessa ci spiega l’ossimoro del tempo nella “metafora della clessidra” che ha inteso racchiudere nel titolo: tutto ciò che inizia ha una fine ma la fine è soltanto un nuovo inizio. Occorre cercare di vivere la propria esistenza con pienezza, accogliendo l’attimo presente, abitando, per quanto possibile, quel granello di sabbia che fugge via. Ma la vera rinascita sta nell’energia che fa girare quella clessidra ogni volta, e ancora un’altra volta, con fiducia, determinazione, speranza.
E così il verso, rifuggendo da tentazioni moraleggianti, esprime tutti i gradi di umanità che racchiude l’esperienza quotidiana, per chi sa davvero comprenderla – come sa fare la poetessa – vivendo il limite come opportunità, il dubbio come stimolo alla riflessione, l’errore come parte di un tutto che non si può sempre e comunque controllare. Un pensiero netto e senza cedimenti, che sfronda il fardello di ciò che è stato dai luoghi comuni della resipiscenza:
Del tempo della vuota forma avrò cura di non curarmi. Sulla linea del mio futuro abbraccerò la bellezza dell’imperfezione. Continuerò a credere nella poesia che si cela dietro i tratti irregolari dietro i gesti malfermi dietro le parole sussurrate con voce tremula dietro le immagini che non rubano lo sguardo. Continuerò a credere nel fulgore dei tagli e delle rughe nelle storie fragili nei fili d’argento. Nella notte delle Esperidi continuerò a credere nell’incanto delle cose semplici.
La scrittura, come si può agevolmente notare già dalle prime pagine, è limpida e scorrevole in tutti i componimenti e procede per visioni che concedono poco al surreale o a suggestioni oniriche, comunque moderatamente presenti. Il ricorso alla sinestesia è sorvegliato e non vi è alcuna retorica in un linguaggio che sfiora spesso la koinè. Il verso assume quasi un tono colloquiale, inclusivo verso il lettore e al tempo stesso autoriflessivo, come una profonda meditazione condivisa. Il ritmo è fluido, di una leggerezza calviniana, per unità sintattiche improntate alla precisione, all’esattezza, ed è accompagnato da una certa sobrietà nei segni d’interpunzione che conferisce al succedersi dei sintagmi un sentore come di narrazione, pur rimanendo alta la tensione lirica, agevolata dall’uso dei verbi all’infinito:
Percepire la bellezza del risveglio dopo una notte cupa. Assaporare l’armonia delle note in una pausa di silenzio. Apprezzare il colore del sole nel grigio di una giornata uggiosa. Sentire la morbidezza delle foglie strisciando contro una parete ruvida. Trangugiare odore di rugiada tra le pieghe di un giorno asettico. Cogliere gioia nell’attimo di malinconia fierezza nei momenti di sconfitta amore nell’indifferenza amicizia nella solitudine poesia nella malattia speranza di rinascita nella tristezza. Avvertire. Avvertire il bianco nel nero.
Insomma, il linguaggio è improntato a un tratto di spiccata sobrietà, come fosse il rifiuto della dimensione bulimica dell’esistere che attraversa larga parte della società contemporanea. Sobrietà, dunque, che caratterizza come punto di forza l’intero percorso di versificazione, ed è la proiezione con ogni probabilità delle declinazioni esistenziali proprie dell’autrice, del suo tratto e delle sue qualità personali. Insomma, anche il linguaggio stesso diventa il segno di una precisa scelta etica. La Ostuni, d’altro canto, non si nega al lettore nei propri intimi afflati emotivi che a volte ricomprendono anche toni di elegia, pur senza cedimenti a stati d’animo rinunciatari o passivi, come nel componimento Germogli:
Custodisco le gentilezze come germogli da coltivare nel cuore. E nel fluire dei giorni le curo con la cautela riservata ai fragili boccioli in un giardino di fiori per dissipare la tristezza che si alterna ai momenti migliori.
O in quello dal titoloRespiro:
Adorno il nuovo giorno con fragranze di muschio e di foglie scarlatte che il seme d’autunno intriso di pioggia disperde nel vento.
La ricerca costante dell’esplorazione poetica sembra essere orientata a raggiungere attraverso la parola, la scrittura, quasi uno stato di grazia, un’elevazione di sapore baudelairiano che consenta di osservare le cose del mondo e le personali vicende – ma anche quelle collettive – con un senso di percezione oggettiva che assommi in sé il distacco e l’etica e l’equità, accettando l’idea che la vita non consista quasi mai in un sinallagma perfetto tra i successi e le sconfitte, tra il merito e il risultato. Ma in termini ancora una volta autoriflessivi, rifiutando di accampare alibi, come nella poesia Clessidra che dà il titolo alla silloge e mette a fuoco – senza cristallizzarlo, bensì presentandolo in divenire – il tema del rapporto tra l’individuo e il tempo:
Il tempo scivola dalle dita come sabbia in una clessidra. Bisognerà rendergli conto di come è stato vissuto: gli siamo in debito per l’amore ricevuto e anche per quello donato se malgrado i tentativi non è stato ricambiato. Se non siamo stati in grado quando era opportuno di cambiare tratta vivendolo con chi ci fa sentire futili. Come bambola rotta.
In definitiva, se si volesse cercare il componimento della silloge che ne racchiuda in sé il significato ontologico, che ne rappresenti quasi un’epitome e ne condensi l’approccio filologico, questo è senza dubbio la poesia La strada migliore, versi raffinati e musicali dal contenuto semiotico assai denso:
Cadere, sì, come farfalle che si posano al suolo. Come foglie d’autunno che atterrano adagio. Come il tempo che lascia capire l’errore. E rialzarsi tra i sassi. Con un piccolo taglio.
Possono occorrere giorniper elaborare questa discesa agli inferi e la redenzione possibileche è il romanzo Una vita come tante della scrittrice americana di origini hawaiane Hanya Yanagihara (Sellerio, 2016 trad. Luca Briasco). Tutto il dolore e l’amore, l’abuso e l’aiuto, la violenza e la delicatezza, il male e il bene, i demoni del passato che non passa e le presenze che salvano, a volerlo. Gli eccessi della sofferenza, della crudeltà e dell’umanità. La vergogna che fa sentire inadeguati e colpevoli senza avere colpa, la paura e il desiderio di un’intimità senza sesso, i traumi che non si elaborano, l’abbandono e la fiducia impossibile, l’autolesionismo. Le declinazioni dell’amicizia, dell’affetto, dell’amore che è accettazione, rispetto, vicinanza, cura. Strazio e grazia, tutto insieme, inverosimile eppure incarnato, in un tempo imperfetto e sospeso in un corpo ferito, abusato, rapito, umiliato eppure bellissimo, com’è anche l’anima e l’impotenza di Jude, il più tormentato e sofferto dei personaggi, in una storia ipnotica che strugge, devasta, incanta ed entra nelle ossa.
Jude ti rimane attaccato, lo ami e lo vorresti proteggere dalla vita e da sé stesso. Jude e Willem, una storia d’amore che commuove fino alle lacrime, con i suoi abissi e le vette di una gioia pura, quella che fa desiderare che il mondo si fermi, per non incrociare il destino ubriaco.
“Willem sentiva che la sua relazione con Jude non esisteva per altri che per loro; aveva qualcosa di sacro, di lungamente cercato e di unico. «Ma stare con te è come trovarsi in un luogo che ha qualcosa di irreale. Credi che sia una foresta, ma tutto d’un tratto cambia e si trasforma in un prato, o in una giungla, o in un ghiacciaio. Sono tutti luoghi bellissimi, ma anche insoliti; per giunta non hai una mappa e non capisci come hai fatto a passare da un paesaggio all’altro con tanta rapidità. Non sai neanche quando ci sarà la prossima transizione, e non sei equipaggiato per affrontarla. Così continui nel tuo cammino, cercando di aggiustare il tiro man mano che vai avanti, ma in realtà non hai la minima idea di quello che stai facendo, e ti capita spesso di commettere degli errori, anche gravi. Ecco, a volte è proprio questa, la sensazione che provo».«In pratica»ribatte Jude dopo un istante,«mi stai dicendo che sono la Nuova Zelanda».Gli ci vuole qualche secondo per accorgersi che Jude sta scherzando, ma quando se ne rende conto Willem scoppia in una risata sgangherata, piena di sollievo e di tristezza. Poi costringe Jude a voltarsi, e lo bacia.«Sì.» dice «Sei la Nuova Zelanda».“
Ci sono storie di rara potenza: al netto degli eccessi, della qualità della scrittura, dei limiti dello stile, della struttura, delle ripetute ellissi temporali, di un finale a misura di editor, la storia di Jude e delle persone che gli ruotano intorno è una di queste. Una storia che lascia il segno, di perturbante grandezza, storia ottocentesca e contemporanea, che ci travolge e non ci risparmia nulla, che ci fa piangere per quella ineluttabilità del danno che non conosce rimedio.
Non è una storia di amore gay, anche se è diventato un cult per questa comunità, è molto di più, è un romanzo-mondo che attraversa senza lasciare scampo la miseria e la grandiosità dell’animo umano.
E diventiamo più umani, il cielo non ci risparmia, la terra diventa più accogliente, e il verso, il verso segue la sua storia, non arretra ma scava il suo percorso, d’aria, respiro, di ciò che vede e sente, ricuce, guida, avvicina. E sentilo, sentitelo quando non c’è altro e l’ombra che somiglia al sonno, tra i nomi e le cose.
Questo componimento fa parte della raccolta poetica Tempo d’opera (Il ramo e la foglia edizioni, 2022) del poeta Alberto Toni (Roma, 1954 – 2019), pubblicata postuma a cura di Roberto Deidier. Sono le parole che forse meglio esprimono e riassumono il senso della silloge, come peraltro dell’intera vita letteraria di Toni, la cui declinazione esistenziale può essere ricompresa in unico sintagma: “umanista contemporaneo”. Un umanista innamorato della vita, nonostante sia stato da essa tradito con una fine prematura. Scrive Deidier, nell’introduzione, che l’amava comunque e indipendentemente dalle avvisaglie della carne. Era materia, non astrazione, una materia da portare sulla pagina, al punto che rileggendo le sue poesie, e nel raccogliere qui quelle che ci ha lasciato, non saprei più avvertire un discrimine, un confine.Di questo appassionato amore c’è ampia traccia nei versi:
All’universo dico: è il tempo del ramo e dell’ultima semina, qualcosa che verrà, e meno stanco di adesso, se qui anche il vento si è calmato, l’ultima serranda, e nel viavai lo senti è arrivato il giorno feriale, lo senti lontano dalla strada, dal divenire tenace, dalla fraterna vita che mi sta accanto: la madre, il figlio tenuto per mano, l’operaio che ha fretta, il lavoro, il saluto di chi si allontana, e tutta la polvere, e la scritta sul muro.
Oppure:
(…) La città oggi nel piombo del cielo ha pure il suo fascino e lo regala, magari per pochi istanti, lo consuma, e lui che vive e non vive, sempre pronto a ogni evenienza, magari un ascolto che non sia di fuga, ma di grazia, di una grazia pura e incontaminata, dopo la pietra e il taglio, dopo la rinuncia, lo chiede, solo un po’ d’aria dopo la fatica che strema. Sente che è poco, ma può bastare, per ora può bastare, se proprio non c’è altro e la tenera notte finalmente si apre.
Amore per la vita, dunque, ancorché da lontano, ovattato, giunga l’eco del Pasolini del Pianto della scavatrice, dentro un sentore di sottile malinconia per una civiltà che si va perdendo, meno spersonalizzata e meno egoistica dell’attuale liquidità teorizzata e descritta da Bauman. Ma il vero filo conduttore lungo il quale si dipanano i componimenti della silloge, e che a sua volta lega la stessa ai libri che l’hanno preceduta, è la canoscenza dantesca. Il bisogno irrefrenabile dell’intelligere attraverso la parola, fino a trovare il linguaggio che metta a fuoco una personale visione delle cose e del mondo, da condividere dentro la grande esperienza umanistica che chiamiamo Poesia. Soprattutto, però, un linguaggio che si articola in modo corale e procede per visioni. Tanto che Toni mette in correlazione la parola con l’arte – figurativa, astratta, informale, plastica e performativa – richiamando nei versi appunto le visioni di artisti, segnatamente del Novecento, che hanno intrapreso il suo stesso percorso approfondito di esplorazione dell’essere, artisti che riconosce quali compagni di viaggio. Paolini, Bonalumi, Giacometti, Bacon, Attardi, Fontana, Festa, Licini, Chagall, Flagey, Guccione, Guttuso, Calder, Merz, Rotella, Afro, Mantegna, Brancusi, Leoncillo, sono esplicitamente citati nei versi, ma alcune delle visioni che Toni ci presenta richiamano l’arte di Burri e di Pascali, purtuttavia senza menzionarli.
Tempo d’opera sembra stabilire un rapporto importante tra biografia e poesia, risolvendosi in una sintesi dell’io storico con l’io antropologico che fa della scrittura uno spazio etico di conoscenza, laddove l’autoriflessione dispiega i suoi significati in una costante ricerca di profondità, resa alla perfezione dai ritmi larghi e musicali dei versi:
Tutto questo variegato in natura, foglie, sentimenti, e noi che ci troviamo, ogni cosa vicina ne ricorda un’altra. Ma solissima natura che si perde. E ti ho risposto, tu la cercavi bella e chiara la parola che ho detto. Resta, che il giorno è ormai chiaro e le case hanno il bell’aspetto di sempre, i cani dei vicini anche stasera al ritorno ci faranno compagnia. Chiara ora la luce, a te distante, ore, minuti. Hai messo scarpe nuove, tre mandate alla porta, sono arrivati i tre libri che aspettavo, ti dirò tutto del loro segno nel futuro incerto, e magari o certo, li troverai in qualche mia memoria sotto altra specie: un gioco a incastro, un verde, un blu notte macchia, imprimatur.
Altra importante e intima correlazione che Tempo d’opera attua è quindi con la musica, che la versificazione dimostra di assumere a termine di riferimento. Da un lato la scrittura si sofferma con puntualità sulla scelta e la valorizzazione della singola parola, quasi a evocare il puntinismo di Stockhausen, peraltro espressamente citato in un componimento. Al tempo stesso, dall’altro lato i versi di Toni creano strutture ritmiche semplici, prive di accelerazioni liriche o verticali, ma definite e precise nei segni d’interpunzione e nella scelta dei sintagmi; strutture sulle quali la magistrale costruzione sintattica e il ricorso sapientemente sorvegliato alla sinestesia generano poi lunghi movimenti armonicicome a richiamare le composizioni di Sibelius, che a parere di chi scrive sarebbe il sottofondo ideale per accompagnare la lettura della silloge:
Chissà come sarebbe guardare il giardino da un’altra parte, dall’angolo più estremo, dalla rete di recinzione, in posizione obliqua, vedere e non vedere se non un insieme dalla distanza, una distanza che è tempo, non solo spazio. Mi resterebbe un passo di verde antico, perso l’orientamento, o mai stato, come presenza non presenza a ciò che era. Con un’idea di assenza e rimarlo, rifarlo in uno stato nuovo e accettabile. Sarà che ogni fine è quel dire: mi allontano e se torno è per cancellare tutto il cancellabile. Vedo, sì, tornano verde e foglie e rami nel folto della nuova stagione; tu mi resti accanto a ricucire, a riprendere in mano il filo nuovo del discorso, a stare.
Infine, l’ultima e naturale correlazione è con la scrittura stessa, e tanto più con i suoi protagonisti. Citati, evocati, in alcune poesie posti ad esergo: Mario Benedetti, Andrea Zanzotto, John Keats, Orazio, Vidiadhar Surajprasad Naipaul, Giovanna Sicari, José Saramago, Giorgio Caproni, Pier Paolo Pasolini e altri, fino al parossismo emozionale, sublime, nel componimento che Toni intitola “a mia sorella Alba”:
Scrive. Con il cuore, l’altro tempo su fili di ghiaccio come Živago o la Cvetaeva o la Achmatova. Poesia come un albero, se parliamo della Guidacci, o come il giallo verticale di Serpenta su fondo verde della mia amica Teresa in Galleria al Ferro di Cavallo, l’86 per Bellezza vivo, sarebbe morto dieci anni dopo. A tenerci per i nostri novembre, gennaio, Amelia a casa nostra con una fetta di torta in mano, Giovanna in via Galazia, Elena, Rosella, e se vogliamo, Marina, Beppe sul 46 in piattaforma a parlare, lui proseguiva e l’incedere nell’impermeabile crema. Va bene, dico, se su noi restano frammenti, la vita, insomma.
Tempo d’opera esprime versi che si pongono in “effetto diapason” con altri scrittori e poeti nei quali Toni trova elementi di affinità o empatia, e anche attraverso questo filtro in uno alla profondità del suo stesso essere affida la parola a una concezione di Poesia molto vicina alla sacralità, quasi una religione laica e condivisa, astratta e reale al contempo, parte di una più ampia rete interculturale dentro la quale ci piace pensare che forse nel pensiero di Toni assuma una sorta di primazia. Ma in realtà non è questo che conta, conta ben di più della bell’anima del poeta l’onestà intellettuale di un poeta vero, il suo approccio devoto alla parola scritta, la cura filologica, l’amore per le lettere. Tutto questo, e non solo, ne fa una delle voci più alte della letteratura italiana contemporanea.
Un po’ romanzo di formazione e un po’ fiaba contemporanea, Qualcuno con cui correre dello scrittore israeliano David Grossman è senza dubbio uno dei capolavori narrativi del nuovo secolo, di cui forse segna l’inizio letterario non soltanto per ragioni cronologiche ma anche, o soprattutto, per la costruzione di un codice comunicativo espressionista che intreccia la scrittura alla musica, all’allarme sociale, all’introspezione nei rapporti di amicizia e amorosi e familiari, alle prospettive esistenziali di una generazione in bilico tra la guerra permanente, irrisolta (il che oggi rimanda all’attualità della cronaca) e l’incombere della tossicodipendenza, il più temibile spettro per i giovani.
La trama si svolge a Gerusalemme su due piani temporali contestualmente paralleli e sovrapposti, sviluppati in capo ai due protagonisti. Piani temporali della narrazione che si rincorrono e si congiungono nel finale: quello di Assaf, il ragazzo incaricato di riportare un cane (Dinka, a pieno titolo il terzo protagonista della storia) alla sconosciuta proprietaria, che scopre essere l’adolescente Tamar, l’altra protagonista. Lei intanto è votata alla rischiosa ricerca del fratello Shay, ostaggio e vittima di un trafficante di droga travestito da improbabile benefattore, che ufficialmente gestisce un gruppo di musicisti di strada per redimerli dalla tossicodipendenza. Assaf, aiutato dalle informazioni di un’anziana monaca e dal fiuto del cane, trova il diario segreto di Tamar e pur senza averla mai conosciuta decide di aiutarla, di correre con lei. Quasi una trama noir, dentro la quale la suspence si intreccia a pagine di commovente bellezza ed emotività, trama sulla quale Grossman distende da maestro un canovaccio narrativo che descrive perfettamente il degrado e la miseria in cui vivono le vittime della droga e i luoghi altrettanto violenti e degradati in cui le vicende si svolgono, ma nel contempo racconta l’amicizia, l’amore, la dedizione al prossimo.L’eco di Dickens a volte rimbalza tra le pagine e ci spiega, con la scrittura semplice ma potentissima di Grossman, quanto possano essere grandi gli adolescenti nella generosità.
Il romanzo entra con molto rispetto nella psiche adolescenziale, ne scava i profili senza retorica fino alla ricerca del limite, del punto di rottura: Cosa credi? Che voglia stare sola? Ma sono fatta così, non riesco ad avvicinarmi veramente a nessuno. È un dato di fatto. È come se mi mancasse quella parte d’anima che si incastra negli altri, come nel Lego. Che ci unisce veramente a qualcun altro. Alla fine tutto cade a pezzi. Famiglia, amici. Non resta più niente.
Come fiaba contemporanea il libro contiene il paradigma cardine delle fiabe: l’allegoria. Quindi, sebbene la trama presenti due protagonisti adolescenti, in realtà non riguarda soltanto i giovani che come Assaf e Tamar sono chiamati ad affrontare problemi enormemente più grandi di loro, ma riguarda tutti gli individui che vivono contesti in cui esprimersi e maturare la propria personalità è estremamente difficile, perché il mondo è sempre più impietoso e complesso. Quelli che sperimentano di persona quanto sia faticoso e frustrante il rapporto con famiglie o società disattente, sorde ai loro bisogni e alle loro richieste di aiuto.Perché la sensibilità, la fragilità, la diversità, la non omologazione sono valori individuali che vengono rifiutati nei contesti liquidi, basati sull’effimero.
Come romanzo di formazione, però, contiene un messaggio dirimente: ci sono comunque dei legami, quelli veri, che possono redimerci dallo straniamento. E combattere per i propri valori assume un significato molto più importante, se hai qualcuno con cui correre.