Di cosa parliamo quando parliamo di letteratura?

di Giuseppe Scaglione

Si sono spente da poco le luci della più grande kermesse italiana del libro, ovvero il Salone di Torino, che il 22 maggio ha chiuso i battenti dell’edizione 2023 – l’ultima di Lagioia – con la speranza di non essere ingiustamente ricordata soltanto per la contestazione alla ministra Roccella e il relativo rimprovero inferto dalla deputata Montaruli al direttore: «Vergogna, sei stato vergognoso, ma vergognati.» Urla che nessuno ricorda abbiano mai risuonato negli ambienti felpati del Salone.

Comunque sia, a conclusione di un evento così importante viene spontaneo porsi qualche domanda e fare qualche riflessione sullo stato di salute del libro in Italia, perché proprio nello stesso giorno di apertura del Salone, il 18 maggio, l’Istat ha diffuso i dati 2022 sulla “Lettura di libri e fruizione delle biblioteche”. Testualmente, è stata pari al 39,3% la quota di persone di 6 anni e più che hanno letto nell’ultimo anno almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali (erano il 40,8% nel 2021). Rilevante la differenza di genere: la percentuale delle lettrici è del 44%, quella dei lettori del 34,3%. Il 17,4% delle persone di 6 anni e più sono lettori “deboli” (leggono al massimo 3 libri in un anno), il 15,4% lettori “medi” (3-11 libri in un anno). Solo il 6,4% sono, infine, lettori “forti” (almeno 12 libri nell’ultimo anno). La quota maggiore di lettori si osserva tra i giovani fino a 24 anni, con punte più elevate tra gli 11 e i 14 (57,1%). In assoluto, il pubblico più affezionato alla lettura è rappresentato dalle ragazze di 11-14 anni, tra le quali più di 6 su 10 hanno letto almeno un libro nell’anno. Per converso il dato AIE (Associazione Italiana Editori) dei libri pubblicati nel 2022 (76.575) evidenzia invece una crescita del 3.8% rispetto al 2019 (74.745).

Siamo dunque una nazione dove si legge poco e si pubblica molto, forse troppo. Questo comporta un cortocircuito tra le esigenze commerciali, quelle che permettono a un editore di prosperare, e la qualità delle pubblicazioni. Soprattutto per la narrativa la situazione è complessa, improntata più alle dinamiche commerciali che alla letteratura. L’oligopolio delle grandi case editrici preferisce puntare su romanzi di nomi noti che fanno vendite, poco importa se non si tratta solo di scrittori ma anche di personaggi famosi per tutt’altre ragioni: il mondo del gossip, la cronaca, la politica, lo sport, eccetera. Raramente prendono in considerazione manoscritti, sebbene validi, di autori poco conosciuti: in genere non li leggono neppure. In pochi casi lo fanno dietro segnalazione di agenzie “esterne” che chi propone un manoscritto deve pagare, a volte anche molto. Ma per farsi rappresentare da agenzie letterarie è quasi d’obbligo aver frequentato una “scuola di scrittura”, il che significa ancora costi e non da poco. Questa è la “filiera” imposta dai grandi editori. Poi, però, non va dimenticato che siamo in Italia, dove le “appartenenze”, le “amicizie” e le “raccomandazioni” contano moltissimo e scavalcano qualsiasi altro criterio, anche per affermarsi nel mondo dei libri, anzi forse più che altrove come dimostrano certi “casi editoriali” che non si spiegano affatto sul piano ontologico. Per definizione, questo non può che essere a discapito della qualità.

Una significativa parte della media e della piccola editoria svolge un discreto lavoro, spesso valorizzando gli esordienti e selezionando opere di un certo valore letterario, insomma si sforza perfino di fare “cultura”. Ma anche le medie e le piccole case editrici devono stare attente al conto economico per sopravvivere. Infine, c’è il dilagante fenomeno dell’editoria a pagamento, per la quale “il cliente” è l’autore e non più il lettore, che lo diventa in modo incidentale. In pratica l’editore a pagamento è poco più di un tipografo, a cui si rivolgono persone che hanno la smania di scrivere un romanzo (il più delle volte non avendone la capacità) e di pubblicarlo con un codice ISBN. Il danno che viene inflitto alla letteratura è enorme perché a questo modo esce una marea di libri senza valore, che inquinano il panorama letterario.

Definito il perimetro nazionale del “quanto si legge”, del “quanto si pubblica” e delle “strade che un autore italiano percorre per arrivare alla pubblicazione”, diventa molto importante domandarsi “cosa” si scrive nei romanzi. E, giacché ci siamo, anche domandarsi perché a un autore italiano di narrativa non venga assegnato un Nobel per la letteratura da quasi un secolo. Sembra intanto chiaro – a prescindere dal genere letterario, concetto ormai fluido – che da noi abbia preso ampio vantaggio la figura dello scrittore-intrattenitore che asseconda gusti e tendenze della platea, diventando ingranaggio di un’industria editoriale sempre più macchina consumistica e sempre meno pilastro civile e culturale. Cosa pensa, a questo proposito, l’ambiente letterario? Quanti da noi ritengono – al pari di Yehoshua o Grossman giusto per citare un paio di esempi nell’area del Mediterraneo – che lo scrittore abbia il preciso dovere di assumersi una certa responsabilità civile e incastonare questioni nazionali e morali nel tessuto della propria creatività letteraria? Insomma, ci sono autori, critici e lettori italiani che riaffermano o reclamano il ruolo dello scrittore come coscienza pubblica? Ruolo che però sembra scomparso in Italia, ridotto semmai alla funzione – ristretta ai pochissimi di maggiore impatto mediatico – di blando opinionista in sorvegliati talk show televisivi. Dai primi del Novecento e proseguendo fino al dopoguerra e poi ancora agli anni di piombo, insomma prima del riflusso, il panorama letterario italiano aveva avuto per protagonisti scrittori etici, nonostante tutto, perché capaci di interpretare il ruolo scomodo e urticante di coscienza critica non solo verso questo o quello schieramento politico, ma scendendo in profondità nelle vene del Paese. Dopo la scomparsa di Svevo e Pirandello (ultimo Nobel italiano autore di narrativa), poi di Pasolini, Calvino, Sciascia e degli altri di quelle generazioni, è tramontato il profilo dello scrittore-intellettuale disfunzionale al sistema, figura centrale fino agli anni Settanta del secolo scorso?

Risuonano ora lontanissime e desuete le parole di Elsa Morante, ovvero «una delle possibili definizioni di scrittore per me sarebbe addirittura la seguente: un uomo a cui sta a cuore tutto quello che accade, fuorché la letteratura». Il vero centro d’interesse dei romanzieri italiani di oggi (un po’ meno dei poeti) sembra essere quello di coltivare il proprio orticello (leggi vendite e premi letterari per aumentare le vendite stesse). In rari casi, limitati ai migliori, l’interesse è solo verso la letteratura ma come elemento a sé stante, sempre e comunque in una posizione decisamente ripiegata su se stessa; una letteratura che nei temi e nella scrittura “si guarda l’ombelico”, per dirla con il grande vecchio della critica italiana Goffredo Fofi o con altri osservatori come Belpoliti o D’Orrico.

Una posizione più aperta è quella del poeta Vittorino Curci, che afferma: «in un libro pubblicato non venti o quarant’anni fa ma nel 2021, Contro l’impegno, Walter Siti sostiene il contrario. “Nel pendolo incessante tra autonomia e eteronomia dell’arte, l’ora presente batte dalla parte dell’eteronomia”. Del resto per avere un successo di vendite, oggi, non è di secondaria importanza mettere a punto una scrittura altamente leggibile e affrontare temi che hanno una presa immediata sul pubblico. Temi che lo stesso Siti si perita di elencare: “migranti, vari tipi di diversità, malattie rare, orgoglio femminile, olocausto, bambini in guerra, insegnanti eroici, giornalisti in lotta col Potere, criminalità organizzata, minoranze etniche”. Di libri che, al contrario, rivendichino la così tanto deprecata autonomia dell’arte (l’arte per l’arte, si diceva un tempo) io non ne vedo molti in giro. Insomma, quella che si vuol chiamare la “funzione etica” della letteratura sembra essere oggi la nota dominante che nessuno, mi sembra, contrasti o abbia voglia di contrastare (neppure Siti con i suoi romanzi). Se c’è decadimento, quindi, lo si deve soprattutto a questo: alla pletora di saggisti, romanzieri e poeti che “eticamente” si propongono di educarci a una vita giusta. Se ci fosse qualche bastian contrario io sarei felicissimo di leggerlo, non solo perché credo che uno scrittore dovrebbe essere politicamente scorretto, ma anche per vedere in che modo affronti la questione della forma che, per dirla con Adorno, è contenuto sedimentato.»

Tuttavia, quello che Siti, e Curci, rilevano è sostanzialmente un atteggiamento etico “di maniera”, stereotipato e preconfezionato, dunque addomesticato, inefficace. Una pseudo “funzione etica” priva di forza, diventata più una “posa” o uno strumento di marketing piuttosto che il vero e coraggioso senso civico di voci che vogliano porsi come reattivo dentro il tessuto sociale. Resta il fatto che sul piano della comunicazione diretta, insomma verrebbe da dire “fuori dall’opera”, chi ha molti lettori e quindi la possibilità di raggiungere un largo pubblico non fa sentire alta e sdegnata la propria voce critica nei confronti di modelli sociali in evidente crisi, afflitti da mostruose diseguaglianze, da nuove ingiustizie e nuove povertà, dal decadimento civile che mortifica la solidarietà. C’è magari chi alimenta la polemica spicciola contro l’arroganza di qualche potente (forse perché fa aumentare la visibilità?), però rigorosamente su argomenti secondari, residuali. Ormai chi dice chiaro e forte che la società italiana sta andando a grande velocità verso derive egoistiche, corporative, antiegualitariste? Chi promuove un “manifesto” o altre iniziative degli intellettuali contro queste derive?

Perché dunque il sostanziale disimpegno? Anche l’ambito letterario è contagiato dalla liquidità, dal decadimento? Correlazioni non ha l’ambizione, né la presunzione, di dare risposte a questi tanti interrogativi a proposito degli autori italiani, piuttosto quella di riproporre le questioni ascoltando alcuni degli altri soggetti protagonisti: editori, lettori e critici.

Riguardo a quest’ultimi, sembra che la critica “giornalistica”, basata più sulla segnalazione della novità editoriale che sulla vera e propria recensione, abbia sostituito la critica letteraria tout court, conformandosi al migrare dell’impegno civile verso il marketing culturale. Non se ne discosta neppure larga parte dei siti web, a cui va comunque ascritto il merito di rendere possibili articoli ampi e approfonditi, fuori dal tradizionale giornalismo culturale italiano ristretto dentro gli angusti confini dell’appartenenza. «Una nuova generazione di penne – spiega Francesco Pacifico – ha finalmente potuto esprimersi in reportage lunghi, con quel “non so che di poco italiano”, quella serietà d’importazione con cui descrivere di più e insieme sviluppare di più i concetti: insomma fare il giornalismo culturale senza passare per il magma retorico un po’ accademico della pur amata terza pagina all’italiana». Tuttavia anche sul web, come sulla carta stampata, è largamente invalsa l’abitudine alla accondiscendenza verso i potentati editoriali. Secondo Vittorio Giacopini, infatti, «basta sfogliare le pagine culturali dei giornali, i blog, le riviste, ed è evidente che l’arte della recensione è quasi scomparsa. Si parla di “opere” quasi in termini pubblicitari, è centrale il contenuto sponsorizzato. Questo, drammaticamente, è quasi più vero a sinistra che altrove e a me fa una rabbia vedere fior di stroncature su, che so, LiberoIl GiornaleIl Foglio, e trovare altrove quasi solo marchette, magari documentatissime, dotte, colte, ispirate, ma sempre marchette».

«Alla luce dell’attuale situazione – sostiene tranciante il critico letterario Nicola Vacca – mi chiedo se esista ancora una letteratura italiana e se ci sia un romanzo italiano che sopravviva  al marketing. Sui banchi delle librerie si trova pochissima narrativa “biologica” e molta narrativa fabbricata a tavolino dopo ricerche di mercato. Libri da dare in pasto a lettori che vogliono leggere proprio quei libri, figli e prodotti del mercato. Giorgio Ficara, che è uno dei pochi critici letterari degni di questo mestiere, in Lettere non italiane scrive che la letteratura, oggi più che mai, è un confine, labile e minacciato. Ci troviamo in una terra di nessuno e di tutti, dove i linguaggi dell’informazione con la loro assoluta potenza hanno snervato e vinto l’intenzione stessa di un’eventuale critica del linguaggio. Dalla mia Zona di disagio (ndr: il nome del suo seguitissimo sito letterario) vedo sconfortato questa terra di nessuno in cui è morta la critica letteraria, e c’è pochissima e debolissima letteratura che non sopravvive a se stessa ma è funzionale a un mercato editoriale che risponde ai bisogni di un ipotetico lettore che consuma ma che non “legge”. Oggi la cultura e la letteratura sono minacciate dall’informazione, dalla “vetrina” e pesa moltissimo la rimozione violenta dello Stile Novecento, sostituito da quella terra di nessuno dove muore il tempo della critica, del romanzo e della letteratura».

Riflessioni, quelle di Vacca, che fanno pensare per differenza di cifra al panorama contemporaneo estero, alla grandezza di un McCarthy (gigantesco anche il suo ultimo romanzo The passenger), di un Cameron, di un Houellebecq, di un Carrère, di un Grossman, o di giovani stelle letterarie come Ocean Vuong o Tiffany McDaniel. C’è ancora spazio, viene facile domandarsi, per riaffermare anche in Italia quella che Vacca definisce la narrativa “biologica”? «Certo – afferma il critico Martino Ciano – ognuno con i propri mezzi deve contrastare questa dittatura del consumo. Purtroppo anche l’opera d’arte, in ogni sua forma, ormai viene prodotta tenendo conto delle tendenze del pubblico; tendenze che a loro volta sono create secondo i dettami dei guru della comunicazione. La stessa controinformazione o controcultura rischia di diventare prodotto di consumo, adagiandosi o partecipando a campagne o battaglie che fanno comodo a chi ha irreggimentato il mondo in un certo modello. Ma essere irregolari costa caro, a volte chi sceglie la via dell’esilio paga con l’isolamento, e forse è questo che fa paura ad alcuni che sono al soldo dell’industria culturale che “deve sempre far quadrare i conti”. Abbiamo, anzi necessitiamo di una classe di pensatori e artisti che deve sporcarsi con la quotidianità e leggerne i meccanismi. Rispetto al passato ci sono molti più mezzi di diffusione e strumenti di analisi, il problema è un altro però: diventare solo dei “bastian contrario” di comodo, o ribelli ciarlatani che pur di dire qualcosa diventano “terrapiattisti” o “sovranisti” o “complottisti”. Io credo che oggi si sia perso di vista l’amore per lo studio e la volontà di scendere tra le masse, mischiarsi a loro, senza acclamazioni o ricerca di fama. L’uomo che ama il sapere, prima di tutto lo coltiva e lo lega all’esperienza. Di fronte a romanzieri o poeti che non leggono, possiamo aspettarci analisi o barriere contro la “mercificazione” dello spirito?»

Romanzieri e poeti che non leggono, dice Ciano. Il triste ossimoro che in molti casi appare la verità di un panorama autoriale talvolta fondato sull’autoreferenzialità, o sulla macchina pubblicitaria. Al netto di tutto questo, c’è la concreta possibilità per il lettore di orientarsi nel mare magnum delle pubblicazioni e trovare veri autori e vera letteratura? Su questo, e sugli altri interrogativi precedenti, la riflessione di Orietta Limitone, presidente dei Presidi del Libro, è che «la questione del ruolo dell’intellettuale periodicamente ritorna, come quella della morte del romanzo. La letteratura, quella che scuote e sposta anche solo di un millimetro la visione del mondo, non ha bisogno di porsi alcuna finalità perché le è connaturata la capacità di mettere in discussione ogni cosa e quindi pone nella ricerca la capacità di analisi del mondo e la possibilità di ritagliarsi il proprio spazio. Se questa è la premessa, ogni lettore può ritrovare nella scrittura la strada che gli sembrava persa o mai trovata». 

Tuttavia, a proposito degli autori italiani è anche interessante il parere di Ippolita Luzzo, blogger e qualificata esponente del mondo dei lettori: «Se posso timidamente dissentire non sulla qualità degli scritti ma sulla plausibilità di fare narrazione di lutti e disgrazie accaduti agli autori, io ne chiederei il motivo. Non so perché affliggere i lettori con malattie mentali, malattie incurabili, malattie infettive, figli disabili, genitori scomparsi, suicidi e quant’altro, senza dimenticare tutte le problematiche di sesso incerto e doloroso. Insomma sembra che essere scrittore in Italia voglia dire essere continuamente bersagliato dalla sorte con ogni disgrazia, ed essere lettore voglia dire dover leggere ogni loro sciagura. La letteratura è immaginazione, non il resoconto di ciò che vi è successo in sofferenza. Noi lettori siamo vicini a tutti gli scrittori, ma vorremmo una letteratura che non ci racconti solo i fatti loro!»

Sebbene presentato con sottile ironia, ritorna il tema di un contesto autoriale ripiegato su se stesso, occupato a guardarsi l’ombelico, come sostenuto da critici citati in precedenza. E gli editori? Cosa ne pensano invece gli editori? Tralasciando scontate opinioni pro domo, una riflessione meditata e obiettiva è invece quella di Annachiara Biancardino, direttrice editoriale di Les Flâneurs Edizioni: «Quando evolve (o forse, per alcuni aspetti, involve) il contesto storico, anche la produzione creativa si trasforma profondamente. Non è, di fatto, possibile paragonare la letteratura odierna a quella degli anni Settanta, perché diverso è il clima culturale da cui essa proviene: si respira un’aria differente non solo nel mondo delle arti, ma anche in quello del giornalismo, della politica, della scuola, dell’università. La prosa non può che riflettere i cambiamenti del sistema culturale. Ciò, tuttavia, non implica che non esistano tentativi, minoritari o di nicchia, di mediare tra funzione estetica e funzione etica della letteratura (tra i nomi più noti delle ultime generazioni di scrittori, mi vengono in mente, ad esempio, per restare nel nostro territorio, Alessandro Leogrande e Nicola Lagioia). Anche la letteratura di ricerca vive di tendenze e attraversa fasi differenti. Buona parte della produzione odierna si concentra sull’analisi introspettiva o delle relazioni umane, in particolare familiari. Credo sia ancora troppo presto per chiedersi se questo fenomeno incida negativamente sulla qualità media della proposta editoriale (a mio avviso danneggiata prevalentemente da altri fattori) o se si possa parlare di una sorta di neomodernismo, di ritorno alle origini della letteratura italiana novecentesca, fra tradizione e innovazione. A chi ama cercare nei romanzi un racconto dei conflitti storici che ci appartengono, consiglierei di tenere d’occhio la letteratura, anche italiana, postcoloniale: mi pare che al momento questo possa essere considerato uno dei terreni più fertili della narrativa a forte impatto sociale.»  

A conclusione di questo breve excursus di riflessioni sul romanzo italiano – una disamina che non ha certo la pretesa di essere esaustiva ma solo quella di stimolare un dibattito – Correlazioni riporta le riflessioni di Angela Barbuscia, titolare della libreria Bloombook. Intanto perché sono pensieri in larga parte oggettivamente condivisibili, a parere di chi scrive, ma soprattutto perché sono avulsi da preconcetti; libertà di giudizio che purtroppo non sembra essere diffusa tra gli osservatori, in molti assoggettati a “narrazioni” benedette dalle stanze dei bottoni. «Non incoraggiate il romanzo – ci dice Barbuscia – è il titolo di un libro scritto da Alfonso Berardinelli e uscito nel 2021 per Marsilio. Da libraia ora (e da buyer libri per un importante realtà editoriale, prima) ho la forte percezione di una sovrabbondanza editoriale nella quale la qualità è presente in un numero esiguo di opere e l’originalità è quasi del tutto assente. C’è qualcosa di patologico in questa produzione narrativa eccessiva: forse alla presunzione di aver tutti qualcosa da scrivere ci ha portato l’assenza di modelli contemporanei davvero rilevanti. Insomma, se leggo Daniele Mencarelli, Veronica Raimo, Ester Viola (e l’elenco può protrarsi davvero a lungo) posso pensare di poter scrivere anche io. C’è un’omologazione al ribasso, laddove la letteratura sembra tanto più appetibile quanto più il periodare è breve, brillante e ammiccante a un’emotività semplice. Ma ho la sensazione che sia esattamente lo specchio dei tempi: l’intellettuale si crede eversivo scrivendo della propria irregolarità o di quella dei personaggi narrati. L’individualismo e l’esaltazione di storie personali (talvolta comuni) sono “prodotti” facili. Tutti abbiamo una “storia”, tutti meritiamo i famosi 15 minuti di notorietà di cui parlava Andy Warhol. La bibliodiversità è spesso solo un’abbondanza soverchiante che di diverso ha il marchio degli editori. Con le dovute eccezioni, naturalmente, che però non si evolvono mai in qualcosa di “disfunzionale al sistema”. Di argomenti politici, sociali, civili si parla effettivamente poco e quando lo si fa è per tratteggiare uno sfondo realistico alla storia. Siamo lontani dall’impegno di Calvino, dalla mafia narrata da Sciascia, dalla critica alla società insita in ogni parola di Pasolini o finanche di Moravia. L’intellettuale è cambiato, è meno “greve”, più pop, più accessibile. È social. Si esprime sulle questioni sociali e politiche, partecipa e lancia sondaggi, ma il romanzo non è più il luogo di una critica profonda al sistema. Ci sono esempi di narrativa d’inchiesta (da Gomorra in poi), ma sembrano far parte di un genere. Difficilmente ambiscono a una qualità letteraria incisiva. Eppure, a mio avviso, è proprio nelle prove letterarie migliori, seppur senza ambizioni di impegno politico e sociale esplicito, che si rinviene ancora l’eversione dell’intellettuale. La sua purezza, l’originalità rispetto a una massa di scritti mediocri e di pensiero omologato. Come esempi penso, tra i romanzi recentissimi, a Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone. Una vicenda privata che per potenza, accuratezza stilistica e sincerità dice della nostra storia collettiva più di molti altri romanzi. Interessante è anche Il continente bianco di Andrea Tarabbia che propone una nuova versione delle vicende di L’odore del sangue di Goffredo Parise. Certo, l’oggetto è in questi casi storicizzato. Parlare della contemporaneità è difficile, appare davvero liquida in molti romanzi. Forse è questa la cifra del tempo. Che si traduce, talvolta, in romanzi distopici, apocalittici. D’altra parte gli americani lo fanno da un po’: l’impegno passa attraverso la codificazione di mondi spaventosi che sono l’esito estremo di tendenze in atto o potenziali. La distopia è ancora il luogo più eversivo della letteratura contemporanea: speriamo però che il prossimo scenario non sia un mondo in cui tutti scrivono e nessuno legge.»


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