Sillabario all’incontrario, lo sguardo e il confine tra echi letterari e suggestioni.

di Maila Cavaliere

“La chiave del quadro sta nella figura di fondo, è un gioco del rovescio”. Così esordisce Antonio Tabucchi nell’ incipit della raccolta omonima. E ben si adatta, mi pare, questo esordio, con la scelta prospettica e rovesciata di Sillabario all’incontrario, il romanzo di Ezio Sinigaglia, scritto a Geremeas tra l’ottobre del 1996 e il maggio del 1997 e approdato quasi trent’anni dopo alla pubblicazione per Terrarossa edizioni. Un racconto intimo, il suo, che procede non per cronologia e nemmeno per diacroniche epifanie ma per categorie, per definizioni raccolte in rigoroso ordine alfabetico al contrario. Un ossimoro? No, perché pur sempre di ordine si tratta. Un avvertimento, piuttosto. È già in questo indizio, infatti, in questo dichiarato à rebours del titolo e della struttura del libro di Ezio Sinigaglia che la fiducia del lettore subisce la prima, voluta incrinatura, lasciando sospettare un trompe l’oeil, un ingannevole invito a fidarsi dell’ordine annunciato, e del senso stesso della succedanea elencazione.

S come Sogno scrisse Parise nei suoi Sillabari, a cui naturalmente corre il pensiero del lettore per affinità nel titolo e prossimità nella struttura della narrazione, e lì si fermò, sostenendo perentoriamente che la poesia lo aveva abbandonato. S come silenzio, invece si sceglie nella progressione di Sinigaglia, che giunge presto, dopo poche lettere, considerato il capovolgimento di prospettiva dei capitoli abbecedari, e contribuisce a disseminare il testo di non detti, di un uso scientifico della “lacuna”, per dirla con Nicola Gardini, come lucida linea tattica della narrazione. Del resto, la prefazione dell’autore candidamente dichiara intorno al testo che “è bene non dimenticare che non è stato progettato come un romanzo, ma come una medicina”. Ed essendo il disagio psichico la malattia in questione, il dottor Attilio Speciani “che prescrisse”, provocando nuova e ridondante eco di sveviana memoria,  consiglia la scrittura come farmaco, come archeologia della ricerca, come metodo di indagine sulla eziologia del male. Ma la scrittura, è noto, se è pharmakon, lo è nella densa polisemia del nome, medicina e veleno, sintomo e cura, ferita e cicatrice, finanche menzogna. E quindi, di default, la stessa prefazione dell’ autore ci consegna all’ inaffidabile scrittura di un malato, reticente e bugiardo per natura e condizione e instilla in ciascuno il dubbio, ribadito peraltro nella quarta di copertina, con sospetta insistenza, che tutto vada rivisto alla luce di una drastica rilettura: “Se il lettore, dalla sua posizione neutrale, e dunque più oggettiva e lucida della mia, volesse mettersi a caccia dei lapsus, delle disattenzioni, delle incongruenze, delle superfluità del testo, forse, con molto talento e un po’ di fortuna, potrebbe, chissà, isolare il colpevole, smascherare l’assassino.” Del resto, lo scandaglio del sommerso del proprio mondo interiore è un’ attività che si compie in apnee temporanee, in un buio denso e profondo e solo di tanto in tanto interrotto da isole di luce e salvifiche presenze. E l’Umanità del terzo capitolo è una rarefatta compagnia, una sorta di cercata Dissipatio H.G., a voler usare il titolo del distopico romanzo di Guido Morselli, una piacevole solitudine interrotta solo da poche, sparute e importanti figure.

Intorno, un nutrito bestiario di relazioni, che esordisce nella Z di Zoo, il capitolo iniziale e una ricca Vegetazione a cui si invidia, “nella nostra ansia di movimento a tutti i costi, nel nostro infantile dinamismo”, “il saper vivere”. Nel mezzo della narrazione e prima dell’ ultimo capitolo che chiosa con la prima lettera A di Aldilà, il lettore incontra disordine e inquietudine in un tempo e uno spazio prossimali, nella “scandalosa flessibilità” di essere bambini e, dunque, ancora attori potenziali della propria esistenza. E pratica una contemplazione goduta e prolungata ad libitum, che dà più gusto dell’azione, quasi sempre rievocata e non raccontata al tempo presente. Ma non ci si aspetti in quell’Aldilà finale un luogo di spirituale approdo. Sinigaglia invece vi affonda un passo vivo e consapevole verso un altrove e un oltre (che linguisticamente lo contiene), e il romanzo si fa anamorfosi necessaria per non scivolare ” dalla terra dell’ora a quella dell’ormai”. Magda Szabó, nel suo romanzo La porta, scrisse che “la scrittura non è un padrone condiscendente”. Eppure per l’ autore di Sillabario all’incontrario scrivere, pur nella fatica e nel dolore, “è la sola cosa che renda vivibile la vita”.


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